Giorni d’estate, di Jessica Swale
Dissemina lo scenario bucolico di astrazioni semi-magiche, portando con naturalezza il dramma storico verso i territori del fantastico. Solo il sentimentalismo frena il suo tocco intimo e catartico
Il 1940 continua ad essere una ferita aperta per gli inglesi, un vulnus dolente in cui il dispositivo di indagine più rappresentativo del Novecento – cioè il cinema – trova da più di 80 anni uno spazio ideale per fotografare quelle drammatiche realtà passate, non ancora seppellite dall’onda del tempo. Oggi, come allora, la memoria storica di un paese lacerato, diviso tra la devastazione metropolitana (Hope and Glory di Boorman) e il sacrificio di giovani dislocati altrove (Dunkirk) sembra rappresentare per i cineasti il vero anno zero dell’isola, il punto di convergenza di buona parte di quei discorsi cinematografici focalizzati sui trascorsi bellici della nazione. Un orizzonte su cui Giorni d’estate staglia il suo disegno, per muoversi nelle zolle più incontaminate e apparentemente “sicure” di un paese nel pieno della sua ora più buia.
Lontano allora dagli epicentri di guerra, Giorni d’estate materializza sin da subito l’immagine di un’Inghilterra spoglia, intrinsecamente pura, dove gli orrori del conflitto si odono come boati distanti di un presente solo in apparenza remoto. Ci troviamo infatti nel Kent, la pacifica ed eterea contea a sud-est del paese, a pochi chilometri dai teatri di guerra francesi. Alice Lamb (Gemma Arterton) è una studiosa di folklore, e vive reclusa nella sua casa solitaria, in prossimità del promontorio costiero. Come una reietta al di fuori del tempo, trascorre la vita tra libri e supposizioni accademiche, senza curarsi degli eventi (sia micro che macroscopici) che cadenzano la sua quotidianità. Ma nel momento in cui si vede “costretta” ad ospitare uno dei tanti bambini evacuati da Londra, il suo approccio (alla vita, all’arte e all’alterità) cambierà improvvisamente, in linea con un passato che smetterà progressivamente di essere traumatico. E in un contesto narrativo in cui alla catarsi si arriva nella sola relazione con l’ambiente esterno, non è un caso che Jessica Swale (qui al suo debutto) posizioni i personaggi in spazi bucolici, dalla natura iconografica profondamente conciliante e liberatoria.
Le scenografie naturali del Kent, su cui si stagliano le emozioni negative dei protagonisti (Frank, il bambino, soffre per la morte del padre in guerra, mentre Alice rimpiange i tempi trascorsi con l’ex fidanzata) servono qui da strumento di emersione/interpretazione del rimosso, e insieme di rimozione immediata dei suoi impulsi più perturbanti. E in opposizione ad una realtà circostante propriamente tragica, Giorni d’estate dissemina il racconto di vie di fuga (sovra)realistiche, di intrecci, spazi e registri segnatamente magici, che con naturalezza spostano la narrazione verso i territori del fantastico, più che del dramma storico. Certo, non sempre il film è in grado di limitare il sensazionalismo emotivo di fondo. Ma nel disvelare la materia (in)visibile che si cela dietro il visibile, mostra una capacità lapalissiana nel sondare lo spazio attraverso l’emotività dei personaggi. Affacciandosi così alla realtà, con lo sguardo proteso verso l’orizzonte.
Titolo originale: Summerland
Regia: Jessica Swale
Interpreti: Gemma Arterton, Gugu Mbatha-Raw, Lucas Bond, Penelope Wilton, Tom Courtenay, Dixie Egerickx, Sian Philips, Amanda Root, Jessica Gunning, Amanda Lawrence, David Horovitch
Distribuzione: Movies Inspired
Durata: 100′
Origine: UK, 2020