Grace, di Ilya Povolotsky

Uno straordinario film realizzato dal regista russo che non è soltanto il viaggio quasi allucinato di un road-movie, ma sa diventare inquietudine esistenziale. #TFF41 Concorso

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L’immagine della Russia che ci viene restituita in questi anni è quella di un Paese che deve ancora sanare le ferite del passaggio dalla dittatura comunista ad una democrazia assai imperfetta ed è in questa incapacità di ricucire le ferite, ma anzi nel riaprirne di nuove, che insiste quella impotenza ad immaginare nuove soluzioni, nuovi assetti sociali. È per queste ragioni che il cinema post-sovietico sa essere così profondamente omologo alla condizione che quella nazione vive.
Non fa eccezione questo straordinario Grace del quasi quarantenne Povolotsky che assume su di sé una tradizione antica e di grande spessore come era quel cinema russo che ha saputo fare la storia, restando esempio mirabile per quella introspezione che costituiva il comune denominatore del lavoro di quegli autori.
Grace, nella sezione del Concorso lungometraggi al TFF41, sembra ricalcare quelle orme e il racconto della giovane protagonista e di suo padre nello sgangherato furgone su cui vivono, arrangiandosi vendendo dvd di blockbuster americani e filmini pornografici, ma anche birre e piccoli snack negli improbabili drive-in montati in mezzo al nulla. Il film non è soltanto il viaggio quasi allucinato di un road-movie, ma sa diventare inquietudine esistenziale, incapacità di adattamento e capiremo, infine, anche difficile elaborazione di un lutto familiare.

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È forse il paesaggio livido e quasi privo di forma, gelido in quel freddo che rende scheletrito anche il mare, inospitale come su un pianeta lontano, a diventare il terzo protagonista della storia. Povolotsky insiste su una visione quasi apocalittica ed è in questo sguardo senza compromessi e carico di un pessimismo senza sbocchi, la misura dell’annullarsi di ogni civiltà, di ogni soluzione. Sembra quasi, nel ripetersi di queste suggestioni, che il cinema sia diventato il megafono che amplifica le grida d’allarme che qua e là puntellano i timidi scontri con il regime. Povolotsky, in altre parole, non ci offre solo un racconto carico di un inguaribile pessimismo, ma sembra darci conto della Russia profonda, della sua condizione invisibile. Quella condizione nella quale si forma e prolifera il pessimismo della sua protagonista (la Grace del titolo?) insoddisfatta e insicura, attratta da una libertà che intravede, ma sola con un padre silenzioso e lontano nel quale con difficoltà sa riconoscersi. Grace diventa quindi il viaggio cupo e apparentemente senza meta in una Russia inospitale che sembra andare alla deriva. Il tarkovskiano Povolotsky si fa interprete di uno sguardo quasi rassegnato su un Paese ingrigito dal tramonto di ogni idealizzazione del futuro, radicato in un presente nel quale i rapporti umani sono solo segnati dalla difficoltà delle relazioni, senza sapere immaginare il futuro e senza alcuna memoria del passato. Una Russia che sa essere brutale nei rapporti e glaciale nella sua solitudine, quelle solitudini che il lento furgone rosso attraversa nei lunghissimi campi del film. Grace ci consegna questa pesante condizione umana e anche lo spettatore guarda con rammarico la giovane protagonista che senza guida e senza alcun viatico consolatorio si avvia a trasformare anche la sua vita in merce da barattare per sopravvivere. Ma la sua determinazione e la meta raggiunta, quel mare così lontano, forse saprà salvarla insieme alla sua generazione.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
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Il voto dei lettori
5 (1 voto)
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