I cancelli del cielo, di Michael Cimino
Heaven’s Gate diventa l’occhio del ciclone del cinema hollywoodiano che inghiotte ogni immagine passata e poi svanisce nel nulla, come un rimosso traumatico non più simbolizzabile. Capolavoro totale.
Un colpo solo?
Il film totale. Il kolossal d’autore. Una roulette russa dove puntare il credito di un’intera vita e poi accettarne le conseguenze, senza il minimo compromesso, senza la minima esitazione. Del resto Heaven’s Gate inscrive già nel suo meraviglioso titolo lo statuto di film di frontiera, spazio fuori dal tempo, opera informe e testo mai compiuto, perennemente al confine tra cielo e terra, idolatria e iconoclastia, dionisiaco e apollineo, autorialità e industria. Cosa resta da dire, allora, del film-maledetto per antonomasia della storia recente di Hollywood? Cosa posso aggiungere io su un film talmente swagrande da sovrastare puntualmente le mie capacità interpretative, rendendomi perennemente muto e frastornato a ogni ulteriore visione? Certo: si potrebbero enumerare le bizzarrie del regista megalomane e l’ossessione per l’inquadratura perfetta; i 70 ciak per scena e i giorni di produzione che si dilatano a dismisura insieme al budget; le liti con i produttori per imporre Isabelle Huppert e la pessima campagna stampa che accompagna il film già sul set; il leggendario montaggio iniziale di 325’, quello finale di 219’, il rimontaggio/taglio della produzione di 149’; infine il flop epocale al botteghino, il collasso della United Artist, la fine di un’epoca. Si potrebbero ri-scrivere pagine e pagine di cose inspiegabili, è vero, ma non avrebbe senso. Perché «questo è questo, non un’altra cosa», ci ricorda (da) sempre Michael Cimino.
«Un uomo non può cominciare qualcosa che non è in grado di finire».
Heaven’s Gate, allora. Il film che ha chiuso, in molti i sensi, l’utopia della New Hollywood. Il western spartiacque che nel suo gigantismo e nei suoi tagli ha segnato nel fatidico 1980 di reaganiana memoria il confine immaginario tra le nuove frontiere delle Vague europee e la nuova civilizzazione delle Major americane. Tra la Hollywood renaissance degli Altman/Friedkin/Milius/Coppola/Scorsese/Schrader e l’era del blockbuster degli Spielberg/Lucas/Zemeckis/Howard. Un discorso di certo troppo semplificato, forse eccessivamente romanzato, ma rimasto scolpito nella mente e nel cuore di ogni cinefilo a venire: la visione ripetuta de I cancelli del cielo – la ricerca della pepita d’oro, del montaggio integrale, “quello voluto da Cimino”, da rintracciare nelle tante versioni trasmesse in Tv, proiettate in una rassegna o acquistate in un dvd… tra le tante ferite, si potrebbe quasi dire – diventa l’esperienza che certifica un’appartenenza, una passione, un’idea di cinema. Forse un’idea di vita. Heaven’s Gate diventa l’occhio del ciclone del cinema hollywoodiano che inghiotte ogni immagine passata e poi svanisce nel nulla, come un rimosso traumatico non più simbolizzabile. L’atto più radicale operato dal Prometeo del cinema che sfida gli dei di Hollywood alla ricerca di un bello ideale sempre ad altezza d’uomo. Un film che smargina dagli incubi americani del post Vietnam – assorbendo le origini nobili del controverso God Bless America sussurrato in The Deer Hunter –, ri(n)tracciando l’epica scintilla della nascita di una nazione minata solo un attimo dopo dal patto di ferro finanza/politica. Nel tradimento della legge dei padri, nel sangue che sporca ogni carta da parati, rimangono solo le persone a incarnare il Mito.
«Carta da parati?» … «Si beh, civilizza la wilderness. Capisci cosa voglio dire?»
Cimino osa. Perché Heaven’s Gate doveva contenere, semplicemente, tutto. Il cielo e la polvere, la ninfa e lo straccio, la memoria e l’oblio, il deserto e il giardino, la frontiera e la civilizzazione, il treno e il cavallo, Harvard e il west, il capitalista e l’immigrato, l’individuo e la folla, il ballo e la guerra, la violenza e l’amore, la lealtà e l’infamia, la puttana e la borghese; e poi Ford e Visconti, Griffith e Ėjzenštejn, Via col vento e I sette samurai, la rivoluzione e la restaurazione, la nostalgia del mito e l’amicizia virile; e poi ancora la recitazione regale di Walken nel selvaggio-Nate e la rudezza recitativa di Kristofferson nel borghese-Averill, la fotografia-dipinto di Zsigmond e i valzer-melodici di Mansfield, la magniloquenza di ogni set e il dettaglio artigianale di ogni oggetto. Insomma: il grande schermo del sogno e i piccoli destini nei sogni. In ogni inquadratura Cimino vuole fondere tutta la (sua) vita e tutta la (nostra) Storia, in una poderosa fuga di significanti che proceda sempre per granitiche dicotomie concettuali trascese però in singole inquadrature pregne di tempo che puntualmente fanno esplodere il cinema nei nostri occhi affabulati. Cimino è spaventosamente lucido nelle sue analisi socio/politiche – riguardiamo oggi, proprio oggi, questo film – e nelle sue prese di posizioni estetiche – un classicismo cristallino nella forma a cui manca però il tempo del racconto classico, che si dilata e si sfarina come la vita, in un ibrido folgorante che procede per moderni disaccordi –, ma Cimino è altrettanto fragile e ingenuo nel credere che il mondo intorno a lui bramasse quella lucidità, quella sete di grandezza e quella cieca fiducia nel dio cinema. Un autore immensamente romantico e spaccone che gira il suo colpo solo e si ritrova dannato insieme a Nate e Averill, caduto all’inferno, dimenticato, ma capace di rinascere come un fantasma luminoso in ogni grande film americano degli ultimi 30 anni.
«Le donne e il filo spinato rendono civile il mondo».
1890. Una data fondamentale per l’immaginario americano, la data della chiusura della frontiera storica: la data della fine del West e dell’inizio del Western. Ed è proprio in quella data che Michael Cimino, l’idealista borghese e viziato, vuole compiere l’assalto definitivo alla diligenza di Ombre rosse: la guerra tra l’associazione degli allevatori e la contea di immigrati a Johnson County riassume ogni paradigma americano, ogni vizio e virtù, ogni contraddizione e grandezza. Ma Cimino perde tempo, tutto il suo tempo, nella bellezza dell’attimo: in riva al fiume, dove Averill ed Ella all’uscita dai cancelli del cielo si perdono in silhouette nel paesaggio vergine, per poi staccare sull’arrivo a cavallo di Nate che agiterà le acque. Subito dopo Il cacciatore, appena prima L’anno del dragone, è di nuovo uno straziante triangolo amoroso a essere posto nel fuori campo della storia, con i due amici/nemici, il ricco dell’Est e il cow boy del West, che lottano come fanciulli solo per raggiungere un orizzonte ideale. L’America. Spazio puro e incontaminato da civilizzare corteggiando l’Europa lontana e la Storia millenaria, la Bellezza eterea e la Prostituta sognatrice, l’Angelo del focolare e la Giovanna d’Arco guerriera. In una parola: Ella…
«L’armatura fece il cavaliere, il Regno il Re… chi siamo noi?»
Cimino cade. Esce sconfitto dalle barricate di Johnson County ma sopravvive nell’immaginario popolare, perché I cancelli del cielo non son certo fatti per essere raggiunti. Cimino guarda indietro e procede in avanti, come l’angelo della storia di Klee, perché capisce (proprio come Kazan, come Penn, come Scorsese/Coppola, come Gray) che per raccontare l’anima americana dei figli bisogna sognarla e bramarla da lontano, coglierla nella babele di occhi famelici e passionali di padri ucraini, russi, polacchi, tedeschi, ecc, ecc, che hanno attraversato l’oceano sospinti dalle vele del sogno. Gente di confine eletta a protagonista assoluta di un cinema all american. Michael Cimino sconta allora il paradosso costitutivo del nuovo Mondo e ne rappresenta forse l’autore più paradigmatico e controverso, il cantore più sincero e innamorato, che abdica addirittura al sogno della regia pur di restare fedele al suo essere di Frontiera. Come si domanda giustamente Aldo Spiniello: «ma siamo sicuri che, in questi anni, non ci siano stati altri modi per superare l’ostracismo? Per continuare a girare, nonostante tutto? Anche dieci minuti, anche un secondo…».
«In linea di principio, tutto può essere fatto».
Nel frattempo, Cimino balla. Heaven’s Gate è l’immagine-in-divenire che non finirà mai di significare, il più grande film mai pensato, il più grande film mai compiuto. Cimino balla. Come nella sequenza della danza borghese a Harvard, con le rotonde geometrie viscontiane rotte già dalla furia e dal sangue del West. Cimino balla. Come nella meravigliosa e speculare sequenza della festa proletaria, dove il moderno uno della folla anarchica si ricondensa nel classico due dell’amore. Cimino balla. Tra il campo lunghissimo del Mito fordiano e il dettaglio sublime di ogni gesto hawksiano. Cimino balla. Tra il cinema-utopia di un’intera generazione e il cinema-ferito dalla sua stessa ambizione. Cimino balla, e balla ancora… sui cancelli del cielo di ogni nuova visione. Un colpo solo.
Titolo originale: Heaven’s Gate
Regia: Michael Cimino
Interpreti: Kris Kristofferson, Isabelle Huppert, Christopher Walken, John Hurt, Jeff Bridges, Sam Waterston, Brad Dourif, Joseph Cotten
Distribuzione: Cineteca di Bologna
Durata: 216′
Origine: USA, 1980
(Recensione tratta dal Numero 22 di Sentieri Selvaggi Magazine interamente dedicato a Michael Cimino. Ecco il LINK per scaricarlo gratuitamente)