I Coen al crocevia della morte (del cinema postmoderno): L’uomo che non c’era

Un cinema che si situa sempre sul filo di una lama, tra la passione per il genere classico e la volontà intellettuale di destrutturarne la logica, il senso, catturandone la rappresentazione visiva rigenerandola in una sorta di “sublime isterico"

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Si può rimanere increduli (e anche affascinati) di fronte alla complessità metanarrativa di un film dei Coen, e questo tanto più di fronte a quest’ultima fatica de "L’uomo che non c’era". Ma questo non fa altro che legittimare il (non) senso delle loro operazioni cinematografiche, da sempre impegnate alla decostruzione del cinema inteso come macchina narrativa “classica”, e alla sua riproposizione in meccanismo dove assistiamo a quello che è stato definito, riprendendo le lezione lacaniana sulla schizofrenia, “un collasso nella catena del significante”.
Che stiamo dicendo? Che il loro cinema va letto “necessariamente” (pena l’incomprensione stessa del “senso”) come un luogo dove “ciò che chiamiamo generalmente il Significato (ovvero il senso o il contenuto concettuale di un enunciato) va visto come un significato-effetto” e il senso è generato dal movimento da Significante a Significante… E’ la smaterializzazione del circuito narrativo che il cinema post-moderno sta ormai praticando da oltre vent’anni e che i Coen perseguono, con risultati stilisticamente diversi ma con lo stesso spirito, iconoclasta e restauratore allo stesso tempo, dal 1985, anno del loro primo lungometraggio, il noir Blood Simple.

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Va ricordato che i Coen iniziarono anche grazie a Sam Raimi, per il quale Joel collaborò al montaggio de "La casa" e al quale poi scrissero la sceneggiatura di "Crimewave" (I due criminali più pazzi del mondo). Poi, come dissero all’epoca, “se un fessacchiotto come Sam riesce a fare i suoi film perché noi no?”.
Ecco tra questo tentativo di riflessione “teorica” e questo ricordo “autobiografico” dei fratelli Coen, sta la misura di questo loro ultimo film, un raggelante noir in bianco e nero interpretato da Billy Bob Thorton e Frances McDormand. Perché tutto il loro cinema si situa sempre su questo profilo di una lama tagliente, tra la passione per il genere classico (con il noir in prima fila) e la volontà intellettuale di destrutturarne la logica, il senso, ma catturandone la rappresentazione visiva, rigenerandola in una sorta di “sublime isterico” che costituisce la miccia creativa dei due fratelli di Minneapolis, un qualcosa di immateriale che viaggia tra lo stupore e il terrore, sguardo disordinato e apparentemente caotico sul mondo, in realtà manipolato da uno stile forte e mai casuale che si fa completamente “senso”. Il gelo che racchiude i personaggi del loro cinema è esemplare in tal senso, e in quest’ultimo giunge come a un’estrema definizione. Non c’è passione per i loro personaggi, nessun amore perduto, forsennato, da ricercare disperatamente aleggia nei loro film. Sono sempre pronti a dimostrare che il cinema, la narrazione costituente il secolo del ‘900, ha messo su una sorta di illusione dello sguardo che ha immobilizzato le persone, le ha rese succubi di una grande inconsapevolezza. Perciò sin dal primo film hanno teso a “svelare” ciò che la narrazione moderna cela (“Volevamo dimostrare che Hitchcock aveva ragione quando, a proposito della Finestra sul cortile, diceva che è molto difficile e penoso, e che bisogna avere molto tempo a disposizione per uccidere qualcuno”, dissero).
Da questo punto di vista il loro cinema è davvero esemplare e se a volte può apparire “emozionante” o almeno sensibile, è perché si è dotato di personaggi/corpi/attori che da un lato attenuano questa loro determinazione, dall’altro ne umanizzano la scena, mettendo in secondo piano la decostruzione di spazio, tempo, ruoli e codici narrativi che vengono nascosti dalla nebbia dell’emozione. Per questo, al di là delle battute, Sam Raimi è un “fesso”. Perché la sua consapevolezza della “natura” post-moderna del cinema contemporaneo non lo spinge verso una sua rappresentazione stilizzata e consapevole fotogramma per fotogramma dell’operazione che sta conducendo, in una lucidità apparente che in realtà sa di “schizofrenia della visione”, ma lo conduce verso le sperimentazioni emozionali di un cinema che ha ritrovato il “calore” dei classici, attraverso una rielaborazione del conflitto tra senso autoriale e senso “attoriale” di geniale produttività (basti pensare all’uso dei corpi “autoriali” di Kevin Costner e Kate Blanchett nei suoi ultimi film). E non è un caso che l’unico personaggio dei film dei Coen che si denota “da sé” di una forza “autoriale” è quello di Frances Mc Dormand (che da sola conferisce a "Fargo" una bellezza indicibile), ma questo proprio perché probabilmente la connessione “familiare” del corpo della McDormand (è la compagna di uno dei due registi) evidentemente la libera dalle gabbie imposte dai Coen stessi.L’uomo che non c’era, al contrario, scarnifica il personaggio dal corpo dell’attore (e qui è un peccato perché il corpo attoriale-autoriale è quello di Billy Bob Thorton, uno dei più interessanti e complessi di questi anni, guardate ancora Raimi e il suo magnifico Soldi sporchi per rendervi conto delle potenzialità incredibili di Thornton) alla sua rappresentazione secondo gli stilemi del noir (il bianco e nero, la voce fuori campo, il gioco delle ombre, l’assurdità degli eventi, ecc…) in un contesto dove il gioco (non d’amore…) perde completamente ogni rapporto con la realtà rappresentata e/o vissuta. Il protagonista, nel corso del film, si muove lungo dinamiche di cambiamenti del tutto apparenti, esattamente come quelli richiesti allo spettatore dagli smaliziati cineasti del Minnesota. Alla fine quella molteplicità dei linguaggi che si intersecano tra loro, caratteristica del postmoderno, giunge in questo strano e imperscrutabile “funerale del noir” a un punto di saturazione emotiva: il distacco critico torna in auge clamorosamente, e così facendo viene meno uno dei cardini della logica del (cinema) postmoderno di cui forse i Coen chiudono con questo film un’epoca ormai, forse, superata.

L’uomo che non c’era
di Joel ed Ethan Coen
con Billy Bob Thorton, Frances McDormand, James Gandolfini

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