Il grande dittatore, di Charlie Chaplin
Dopo il restauro della Cineteca di Bologna, torna in sala il film di Charlie Chaplin, film con il quale abbandona per sempre Charlot e, uscendo dalla maschera, comincia a parlare.
Il grande dittatore, Chaplin, 1940
Tempi moderni del 1936 aveva segnato una tappa non indifferente nella evoluzione del cinema di Chaplin. I suoi “tempi moderni” coincidevano con la capitolazione (sia pure parziale e balbettante) al sonoro. Chaplin che sosteneva che Il silenzio è l’essenza del cinema, si piegava all’utilizzo del suono della parola, sconvolgendo la fenomenologia di Charlot che si arrendeva, quindi, davanti all’avanzare della modernità. Su suggerimento di Alexander Korda, Chaplin iniziava a lavorare alla parodia del dittatore, mutuando dal contemporaneo e coetaneo Hitler, ogni possibile riferimento per la costruzione di un personaggio che ne ricalcasse le caratteristiche, attraverso un quasi pedissequo rifacimento e una altrettanto esplicita riconoscibilità, che non pochi problemi fece vivere al film almeno nelle sue prime battute e nell’immediatezza della sua realizzazione. Il grande dittatore (1940) proponeva sotto una nuova luce il personaggio di Charlot, maschera ancora vitale sebbene qui nella sua parabola discendente e dell’inevitabile tramonto, per mettere in ridicolo il potere e l’arroganza.
Il film oggi ritorna nelle nostre sale dopo il restauro dell’operosa Cineteca di Bologna.
Sberleffo al potere o saggio sulla speranza, nonostante i tempi. Il film oscilla in queste due direzioni fondando sulle gag di un mestiere ormai consolidato, il popolare pamphlet antidittatoriale che ne costituisce l’ossatura. Frutto di una satira diretta e rivolta, come tutto il cinema di Chaplin, all’animo più semplice dei propri spettatori, induce reazioni primarie così come primari sono i sentimenti sui quali l’omino chapliniano ha fondato la sua maschera e costruito la sua immortale icona. D’altra parte tutto ciò presta il fianco alla deriva populista rispetto alla quale il film sembra indulgere nel finale con il famoso discorso del barbiere ora sostituitosi al dittatore delle due croci. Chaplin chiama a sé la fidata Paulette Goddard che riempie lo schermo con la sua moderna e scarmigliata bellezza e media con un buon senso femminile le spavalderie fuori luogo del piccolo barbiere suo spasimante.
Se il film fonda la propria forza su un umorismo che non è, come al solito, incontenibile, ma ritrovato dentro una misura sempre sottilmente intellettuale che sa conciliarsi con la semplicità comunicativa e i segni di una immediata riconoscibilità, è anche vero che Chaplin con Il grande dittatore assegna alla parola un ruolo decisivo che ne suggella l’esito al di là di ogni gag, dal mappamondo giocato come un pallone, alla deliziosa sequenza della moneta nei budini o alle molte altre che costellano il film. Proprio quella parola così distante dalla poetica chapliniana, sempre, invece, strettamente legata all’equilibrio dell’immagine nella scrupolosa ricerca del punto di vista della macchina da presa, unico vero strumento ed essenza del cinema di Chaplin (“Il piazzamento della macchina da presa è l’inflessione del linguaggio cinematografico”), sembra diventare protagonista finale nel discorso pacifista e di esaltazione di ogni dignità umana. Chaplin cede quindi alla tentazione del didascalico, quando, invece, il suo cinema aveva rappresentato così bene queste intenzioni. Ma qui forse l’intenzione è un’altra e Chaplin rompe la mediazione artistica e per la prima volta sembra entrare in prima persona nel suo cinema, accantonando, gag, Charlot, cinema e arte. Il suo discorso inequivocabile e diretto, rompendo le regole della rappresentazione, è rivolto direttamente a noi spettatori. I tempi sembravano chiedere questo impegno in prima persona e Chaplin obbedisce ad una specie di imperativo categorico.
Il cinema di Chaplin si era quindi trasformato e sicuramente egli stesso sentiva il peso di
un mondo in pieno mutamento. Il grande dittatore era stato realizzato all’alba del conflitto mondiale e quindi forse troppo tardi perché quelle intenzioni autenticamente pacifiste, andassero a buon fine. Il film resta dunque un pezzo importante della filmografia dell’autore inglese, espressione di quel “socialismo anarchico” che in qualche modo era radicato nella sua visione del mondo. Ma Chaplin, in fondo, non smise mai di credere nei valori che quel “socialismo” avrebbe dovuto combattere. In questo senso Il grande dittatore, pur costituendo un pezzo unico, poiché qui Chaplin si affranca per sempre da Charlot, uscendo dalla maschera e parlando, cioè, articolando parola, espone il fianco e mostra la sua debolezza. La maschera di Charlot viveva in quanto pienamente antagonista al potere costituito e non, con Il grande dittatore Chaplin, direttamente, sembra ripartire, per fondare la propria utopia, necessariamente dagli ideali dominanti (borghesi, si dovrebbe dire), cioè da quegli stessi che Charlot aveva avversato per tutta la sua esistenza. L’intenzione è encomiabile e non si discute sulla buona fede, ma rotte le regole dello spettacolo, la parola di Chaplin, per un attimo, sembra una nube passeggera sull’esistenza eterna di Charlot.
Titolo originale: The Great Dictator
Regia: Charlie Chaplin
Interpreti: Charlie Chaplin. Paulette Goddard, Jack Oakie
Distribuzione: Il Cinema Ritrovato- Cineteca di Bologna
Durata: 125’
Origine: USA, 1940