Il tempo dei lupi è arrivato: Haneke ed Emmerich, catastrofi a confronto

L'ennesimo film savonaroliano di Haneke e il blockbuster di Emmerich a confronto: più sono distanti i due cinema, e più sono intriganti i parallelismi…

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Haneke ed Emmerich – contemporaneamente sugli schermi italiani – offrono due visioni parallele del loro modo di vedere la catastrofe verso la quale l'uomo corre: il destino di repentina estinzione. Quanto più i due registi sono distanti – Haneke col suo cinema-teatro, fatto di lenti piani fissi, e con la sua weltanschauung savonaroliana, pessimista e portasfortuna; ed Emmerich, il tedesco a stelle e strisce, col suo cinema blockbuster denso di effettismi e proclami superomistici – tanto più intriganti sono i parallelismi offerti dalla visione dei loro ultimi lavori.

Ne Il tempo dei lupi l'umanità, in un istante imprecisato della Storia, è alle prese con una catastrofe indefinita, che la porta comunque ad essere privata degli agi offerti dalla vita moderna – elettricità, in primis, e dunque acqua corrente, riscaldamento, luce, trasporti, e così via. Ne L'alba del giorno dopo, pure, la stessa umanità è ancora minacciata: il pericolo non solo è esplicito, ma nasce addirittura dal suo stesso comportamento, dalla spensierata voglia di progresso del mondo occidentale che genera nella Natura un profondo desiderio di rivalsa. Non è dato sapere perché i Cittadini di Haneke siano costretti a razionare ogni bene di prima necessità; ma è abbastanza chiaro che si tratta di qualcosa di grave, di esiziale addirittura, e che le aspettative di sopravvivenza sono molto, molto limitate. In ogni caso, è solo fuggendo dalla Città che la speranza di cavarsela non si annulla; a quest'allontanamento dal Centro, dal Moderno, corrisponde la fuga dal Primo verso il Terzo Mondo che Emmerich, con i suoi sceneggiatori, indica come sola strada possibile per la salvezza dalla nuova Glaciazione.

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Il grande freddo che, ne L'alba del giorno dopo, minaccia l'emisfero nord del pianeta, è lo stesso gelo che costringe la famigliola ex-felice della Huppert a coprirsi con gli indumenti marcescenti di un cadavere in decomposizione; una famigliola ex-felice, come quella del Quaid di Emmerich, un padre che lo sconvolgente sviluppo degli eventi separa forzosamente dal figlio, proprio come capita alla Huppert, continuamente alla  rincorsa di un figlio che fugge continuamente da lei, oltre ad essere diviso dalla sua famiglia da una scissione anzitutto psicologica. Mentre il freddo scandisce il tempo nel wolfzeit di Haneke, l'ora del lupo puntualmente scocca – e non in maniera metaforica – ne L'alba del giorno dopo, dove lupi in carne ed ossa hanno tutte le intenzioni di sopravvivere nell'unico modo che conoscono.
E se, a livello cosciente, il fuoco col quale Haneke si affaccia sul baratro della follia richiama alla mente più i medievali roghi purificatori che i confortevoli e rassicuranti caminetti montani, le immagini delle fiamme offerte dai due registi nei loro finali condividono, a livello subliminale, quantomeno il loro status di energia vitale, di elemento indomito che si piega solo casualmente e temporaneamente al volere dell'uomo.

Homo homini lupus, continua a raccontare Haneke con i suoi ultimi lavori – o è sempre lo stesso film? – e in particolare con Il tempo dei lupi; ancora una volta, da parte sua, un racconto incompleto di diversi viaggi. Proprio come il film di Emmerich, che si chiude, incompleto, con la promessa di milioni, di miliardi di viaggi verso Sud.

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