La cura, di Francesco Patierno

La peste di Camus viene attualizzato nei duri giorni del lockdown a Napoli. Ma il film è forzato, prigioniero della sua teatralità e si abbandona a estenuanti monologhi. Concorso.

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“Fratelli, la sventura vi ha colpito. Fratelli, ve lo siete meritato”. La voce di Peppe Lanzetta nei panni di Padre Paneloux rimbomba anche nella sua predica sullo sfondo dei palazzi di Napoli. La città è deserta e l’apocalisse sembra vicina. Una troupe gira un film nei giorni più duri del lockdown. La vita privata degli attori s’intreccia con quella dei loro personaggi. L’adattamento di La peste, il romanzo scritto da Albert Camus nel 1947, prende forma. I piani narrativi finiscono per unirsi. La cura gioca infatti su un continuo parallelismo, sia a livello narrativo sia visivo. C’è il saluto in stazione di Francesco Di Leva alla moglie che sta partendo per andarsi a curare a Milano. E succede la stessa cosa anche al suo personaggio di Bernard. Il set, con la troupe è lì dietro, alle spalle. Così come si passa da una stanza vuota alla corsia d’ospedale. Da Orano a Napoli, dalla peste al covid, dagli anni ’40 ad oggi. Il meccanismo è subito dichiarato. Scorrono così la galleria dei protagonisti tra cui il prefetto (Andrea Renzi), Rambert (Francesco Mandelli) e Tarrou (Alessandro Preziosi). Ognuno con un dramma da affrontare, una separazione lacerante dove la fuga sembra l’unica soluzione possibile, un passato fatto di scelte dolorose che hanno causato la rottura irreversibile con la propria famiglia.

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Patierno sceglie un approccio diverso dalla fedele trasposizione letteraria come aveva fatto Luis Puenzo con il film omonimo del 1992 con William Hurt protagonista. La cura attualizza il romanzo, cerca di renderlo universale. Ma una volta che la forma è dichiaratamente scoperta, il film finisce per essere ripetitivo. Ci sono le immagini di Napoli deserta che potrebbero arrivare da un documentario sul/post-Covid. E poi una storia che non riesce a incastrarsi con il luogo e con il dramma. Patierno conosce Napoli, ne rivela lo sbigottimento, lo stupore e la bellezza davanti alla tragedia della Storia. Lo aveva già dimostrato nel modo in cui aveva filmato Casoria in Pater familias, il suo miglior film. E la discesa all’inferno e i tentativi di riscatto rimandano al suo secondo lungometraggio, l’interessante e sottovalutato Il mattino ha l’oro in bocca. Poi il suo cinema sembra essersi smarrito per strada. La cura è il tentativo di prendere un’altra direzione, ma è un film forzato, prigioniero della sua teatralità e costruisce spesso estenuanti monologhi attorno ai protagonisti più importanti, come, per esempio, quello di Preziosi sul padre. Di Leva è ancora un anima errante, come nel cinema di Martone. Qui però non evolve e resta al punto di partenza, intrappolato nelle parole del romanzo di Camus. La sua vita vera e degli altri sono solo uno sfocata proiezione speculare. C’è solo il mare, all’inizio e alla fine del film. L’orizzonte però è lontano, troppo lontano. E quel desiderio d’isolamento, di fuga da parte di Di Leva/Bernard resta irrimediabilmente bloccato, come tutto il resto del film.

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2
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Il voto dei lettori
3.33 (6 voti)
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