La rabbia giovane, di Terrence Malick
Uno degli esordi più sorprendenti in cui Malick dà forma a quegli elementi endemici che faranno parte del suo linguaggio cinematografico. Con Martin Sheen e Sissy Spacek
Malick prima di Malick. Per leggere il cinema più recente di questo regista, non semplicemente in un discorso formale ma in relazione a un percorso che lo ha portato alla definizione di una lingua personale, è necessario iniziare dal suo film d’esordio che lo vede anche nel ruolo di sceneggiatore e produttore. Badlands, che è il titolo originale e letteralmente indica una certa conformazione piuttosto aspra del territorio da cui prende nome anche un parco nazionale, è già un chiaro segnale dello spazio che l’ambiente ha rispetto ai personaggi. Prima che esso possa prendere il sopravvento, influenzandone scelte e comportamenti, come accade ad esempio ne I giorni del cielo, opera seconda di Malick, qui entra a far parte della narrazione in una posizione che potremmo chiamare di “correlativo soggettivo”. Perché nodo centrale di una storia che non raggiunge ancora quelle punte di rarefazione alla Tree of Life sono Kit (Martin Sheen) e Holly (Sissy Spacek). Lui venticinquenne “si atteggia” a James Dean ed è insoddisfatto della vita – fa i lavori più umili; lei, quindici anni, è un’adolescente matura che si innamora e si lascia trascinare via, impassibile di fronte all’uccisione del padre da parte del ragazzo. Una favola romantica, un dramma, una mitologia di un evento realmente accaduto (il caso della coppia Starkweather-Fugate)?
La rabbia giovane è uno degli esordi più sorprendenti proprio perché sovverte le convenzioni e si pone in un non-luogo dove il tempo sfugge alla Storia e ne lascia una eco appena percettibile in quel malessere che paradossalmente non appartiene solo a una generazione. Sì, c’è la figura leggendaria di Dean che viene rievocata neanche senza troppe velature, però non siamo più confinati nel recinto familiare de La valle dell’Eden o di Gioventù bruciata. È una gioventù, questa rappresentata da Malick, che si è già emancipata da padri severi – Holly non piange la morte a sangue freddo del genitore, né sembra scossa. L’indifferenza con cui Kit fa fuori chi prova a fermarli è allora figlia di un sentimento di spaesamento e alienazione nei confronti di un momento storico. Malick, volutamente, non dà le coordinate per orientarsi in questa perdita dell’innocenza, non tenta di ricomporre le parti del quadro, e si affida a un punto di vista interno che è quello della protagonista.
Normalmente la voce narrante nel cinema viene considerata un elemento aggiuntivo rispetto al potere evocativo delle immagini e spesso si tende a limitarla, se non a demonizzarla soprattutto laddove esista un riferimento di matrice letteraria – tradurre significa “trasfigurare”. Malick la riconduce a un carattere introspettivo, quasi come fosse una confidenza dei personaggi rivolta a un tentativo di messa a fuoco dei loro stati, piuttosto che assegnarle una funzione di tipo esplicativo. La riprova di questo approccio, che travalica quindi l’uso più consueto della voce narrante, sta nel fatto che alla fine le ragioni che muovono Kit a ribellarsi restano in qualche modo sospese: la stessa Holly parla di stato d’incoscienza, di disperazione e dopo l’ennesima sparatoria abbandonerà il ragazzo al suo destino.
Lo spettatore viene circoscritto in uno spazio che è delimitato dallo sguardo stesso dei protagonisti: è assente in Malick la volontà di spingersi oltre per estendere il raggio a una narrazione di campo e contro-campo, da una parte i ricercati e dall’altra la polizia che è sulle loro tracce. E questo sposta inevitabilmente l’attenzione dall’azione, qui intesa come fuga verso la libertà alla Bonnie e Clyde, alla reazione che Kit ha di fronte all’incursione di “elementi” che, pur appartenendo al loro mondo, ne sono estranei.
L’unico momento straniante rispetto a una figurazione interiore, ma forse è anch’esso frutto in una prospettiva d’immaginazione di Holly, è la sequenza in bianco e nero che ci proietta all’esterno: le immagini vengono assemblate a mo’ di notiziario recuperando per un attimo quella dimensione di cronaca di un fatto d’attualità. Per il resto del film danziamo in una realtà sognante abbracciati a King Cole in uno dei lenti più romanticamente assurdi – i corpi di Kit e Holly illuminati dai fari dell’automobile riflettono le loro ombre sullo sterrato dell’autostrada. La musica-guida di Carl Orff poi è un ritorno a un’età mitica, di purezza, “piena di cose che danno il piacere solo a guardarle”. È la natura, habitat per eccellenza dell’essere umano sin dalle origini: i protagonisti costruiscono una casetta sull’albero in una foresta attraversata da un fiume; hanno anche una gallina. Si spostano lungo ampie distese, ambienti primitivi inframmezzati giusto da qualche segno di civiltà. La loro condizione diviene parte stessa di quel paesaggio che Kit fissa al tramonto fino a sera fermo in posa come uno spaventapasseri: “Vivevamo nel più completo isolamento, un po’ qui un po’ la. Secondo Kit avrei dovuto dire solitudine perché si adatta più al mio stato d’animo”.
Titolo originale: Badlands
Regia: Terrence Malick
Interpreti: Martin Sheen, Sissy Spacek, Warren Oates, Ramon Bieri, John Carter, Alan Vint
Durata: 95’
Origine: USA, 1973
Genere: drammatico