L’arpa birmana, di Kon Ichikawa

Dal romanzo omonimo di Michio Takeyama, è un’opera senza tempo che condanna ogni guerra e ha echi fordiani e scene tra le più belle di tutto il cinema bellico. Da oggi in sala in versione restaurata.

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Seppellire i morti è una delle sette opere di misericordia. Ed è il modo più sensato di rispondere alla follia della guerra. Non ci sono parole adeguate per descrivere l’orrore, rimangono la musica e il canto. Siamo in Birmania nel 1945, ormai la guerra è finita e il soldato Mizushima (Shōji Yasui), dopo avere fallito nella missione di convincere i suoi compagni giapponesi ad arrendersi agli inglesi, decide di diventare monaco buddista e dare degna sepoltura ai cadaveri di tutte le vittime del conflitto bellico. Mentre il Capitano Inoue (Rentarō Mikuni) e gli altri commilitoni vengono fatti prigionieri e portati in un campo di concentramento, Mizushima compie, attraverso le terre intrise di rosso/sangue di tutte le guerre, un percorso verticale che va nella direzione dello spirito.

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Kon Ichikawa si è rivelato al pubblico occidentale proprio attraverso questa opera che venne colpevolmente non premiata col Leone d’oro al Festival del Cinema di Venezia nel 1956. Sin dalle prime immagini si avverte una narrazione sincera e una forte ispirazione religiosa: di fronte allo scempio dei cadaveri dei soldati lasciati in pasto agli avvoltoi la risposta è in direzione opposta al “cuore di tenebra” del Colonnello Kurtz che si lascia contaminare e possedere dall’orrore. Mizushima, al contrario, cambia veste e pensieri e compie un gesto caritatevole che possa portare un equilibrio nel caos morale circostante. L’arpa birmana è il mezzo per trasmettere questo sentimento di pietas e riportare la pace. Il canto è un ponte che può stabilire una connessione tra gli opposti schieramenti: in una splendida scena vediamo i soldati giapponesi in fuga intonare Hanyu no Yado (variante nipponica di Home Sweet Home di Sir Rowley Bishop già sentita in Il massacro di Fort Apache di John Ford) e poco dopo lo stesso ritornello viene cantato dagli inglesi come messaggio di tregua. La guerra si è conclusa con le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, è il momento di ricostruire sulle macerie.

Ichikawa detta un movimento lento, meditativo, fatto di piani fissi e lunghe inquadrature, teso a portare lo spettatore a porsi dei quesiti etici. Quale è la nostra responsabilità in questo universo di violenza? È la stessa domanda che si pone il soldato Witt (Jim Caviezel) ne La sottile linea rossa di Malick. Il personaggio della vecchietta e del bambino orfano sono esemplificativi del ruolo della solidarietà nel momento della difficoltà. Mizushima è dibattuto tra il volere ritornare in Giappone e il restare in Birmania a fare da testimone consapevole di un universo naturale violato dalla crudeltà umana. Il libero arbitrio diventa una scelta esistenziale che scorre sui binari della Fede: avere cura dei morti significa avere rispetto di ogni vita umana. Il pappagallo sulle spalle del bonzo è invece la voce della coscienza che comincia a farsi sentire proprio quando si è al culmine della disperazione.

Basato sul romanzo omonimo di Michio Takeyama, sceneggiato da Natto Wada moglie del regista, L’arpa birmana è un’opera senza tempo che condanna ogni guerra attraverso un viaggio che parte dall’umano per finire nel mistico. Il percorso verticale è fatto di trascendenza ed è riassunto in quella lettera testamento lasciata nelle mani del Capitano Inoue. Basta intonare un canto e ricompare Mizushima a strimpellare note ipnotiche sulla sua arpa: è una scena molto intensa, forse tra le più belle di tutto il cinema bellico, in cui un lento carrello laterale accompagna il coro dei disperati al di qua del filo spinato del campo di prigionia. La canzone che sentiamo (Aogeba totoshi) è l’addio di un uomo che sta per compiere un sacrificio di redenzione immolandosi per tutti gli altri. Il particolare diventa universale e quelle note uniscono l’amico e il nemico, il vincitore e il vinto, il vivo e il morto.

Titolo originale: Biruma no tategoto/ビルマの竪琴
Regia: Kon Ichikawa
Interpreti: Shōji Yasui, Rentarō Mikuni, Tatsuya Miyashi, Yūnosuke Itō, Taketoshi Naitō, Jun Hamamura, Shunji Kasuga, Akira Nishimura, Hiroshi Tsuchikata, Tanie Kitabayashi
Distribuzione: Cineteca di Bologna
Durata: 116′
Origine: Giappone, 1956

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.6
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Il voto dei lettori
4.5 (4 voti)
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