Le “larve” di un non contemporaneo. Uno scritto raro di Carmelo Bene

Riceviamo da Franco Maresco, che ringraziamo, un testo a firma di Carmelo Bene raccolto nel 1996 per la rivista Nino, domani a Palermo, della quale il regista di Belluscone fu uno dei fondatori

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Riceviamo da Franco Maresco, che ringraziamo per il “dono”, un testo a firma di Carmelo Bene, pubblicato originariamente nel gennaio 1996 sul primo numero della rivista Nino, domani a Palermo, avventura editoriale “battagliera” palermitana durata cinque uscite, e di cui Maresco è stato uno dei fondatori. Il “ritrovamento” è ad opera del team di Fumettirari.com

Le “larve” di un non contemporaneo
di Carmelo Bene
Omaggio ad Antonio Pizzuto
Questo intervento di Carmelo Bene, seguito dalla lettura di brani tratti da Signorina Rosina, introduceva il recital che ha inaugurato il programma di Palermo di Scena, nel luglio 1995 a Villa Trabia.

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Per chi non lo conosca, Antonio Pizzuto è nato nel 1893, in maggio, da una grande famiglia palermitana di tradizioni umanistiche e letterarie. Il nonno Ugo Antonio Amico, fu latinista apprezzato anche dal Carducci; la madre Maria Amico, quindi Pizzuto, scrisse poesie. Per lei il Carducci compose una breve lirica. Pizzuto si laureò giovanissimo in Giurisprudenza con una tesi di economia e statistica, e quindi in Filosofia. Entrato nella Pubblica Sicurezza arrivò al grado di Questore e ricoprì la carica di Presidente della commissione internazionale di polizia criminale. Si dimise alcuni anni dopo. La passione per la letteratura: grandissimo traduttore di classici latini e greci (Cicerone, Platone), si dedicò moltissimo alla filosofia, tradusse Kant, lesse in originale le opere di Proust ma soprattutto di Joyce. Dopo anni di lavoro nel ‘56 terminava il suo primo libro, il meno joyciano, diciamo, dove c’è ancora una traccia almeno nelle liasons del racconto di questo nome Rosina, signorina Rosina, che può essere un asino, poi la gatta… Ricorda un po’, il protagonista Bibi di Signorina Rosina l’agrimensore e geometra kafkiano. E quindi, sempre tramite Joyce, prima Ravenna, poi Si riparano bambole. Conobbe profondamente anche la musica. Scrisse anche altri romanzi. Io, ventitreenne, ebbi a conoscere Pizzuto tramite l’amico, ora scomparso, Roberto Lerici, che ne editò tra la fine degli anni Cinquanta e i primissimi degli anni Sessanta tutte le opere fino a Paginette. Invito, chi non ha letto Pizzuto a leggerlo, Pizzuto e le larve di Signorina Rosina sono davvero quanto di grande ha ed è Palermo. E non lo sa. Proprio nella sua postfazione a Paginette, l’ultimo dei suoi libri, dove la scrittura fa i conti con la scrittura, “essenza – cito Pizzuto – delle mie pagine, oro frutto e fonte a un tempo, è un antistoricismo assoluto. La storia è un’esigenza apriorica, categorica, inapplicabile nella realtà storiografica, perché è una ricerca senza fineche nessun risultato può soddisfare”. Da qualsiasi dato, lo sappiamo bene, scaturiscono incessantemente problemi nuovi.
Il fatto, dunque, ci somiglia – Carmelo Bene e Antonio Pizzuto – ci assomiglia proprio la sfiducia nel fatto, aristotelica d’altra parte, già presagita. Il fatto dunque è un’astrazione continuamente trascesa dal nostro bisogno di storia, che può concepirsi come una ricerca della persona nella persona, della vita nella vita, una narrazione – insomma – che ne sarebbe l’espressione e che io distinguo dal racconto, ma non ne è un’evoluzione dialettica, perché narrare non è l’opposto di raccontare. E qui attenti. Raccontare è proporsi di rappresentare un’azione. C’è uno svolgimento di fatti, ma anziché rappresentarli il racconto, in ultima analisi, li documenta. Personaggi, eventi, dati psicologici, tutto si va pietrificando via via che lo si racconta. La narrazione vince l’assurdo perché la narrazione è invece lo storicismo, la narrazione è storicistica. La narrazione, ripeto, vince l’assurdo di tradurre l’azione in rappresentazioni perché riconosce che il fatto è un’astrazione; se i personaggi raccontati sono dei documenti, i personaggi narrati sono dei testimoni. La rappresentazione non è più offerta ab extra come una planimetria sottoposta al lettore, ma scaturisce intuitivamente da ciò che egli vi legge con una compartecipazione attiva, direbbe un tomista, in cointuizione. La narrazione, quella storicistica cioè, diventa così sostanza-forma, cioè stile, non più analisi ma sintesi trascendentale, in cui l’azione riprende vita perché la narrazione non ne è più il ritratto bensì una risonanza. Ripeto, mi unisce proprio questo a Pizzuto. Questa diffidenza, questo astio, questo disprezzo congenito per l’arte del grande Questore e Presidente di polizia criminale internazionale, misconosciuto giustamente.


Ci somigliano nell’antistoricismo, nella sfiducia dei fatti analizzabili. Un fatto è una sintesi giustamente trascendentale, che trascende il fatto, così come – ha ragione Derrida – la stampa riferita, la sciagurata libertà di stampa, non può riferire i fatti, non informa sui o dei fatti, ma informa invece i fatti (non se l’abbia a male la stampa perché tutti i grandi giornalisti e scrittori lo sanno benissimo). Quindi, il Questore e Presidente di questo comitato di polizia criminale internazionale, eruditissimo ma profondamente ispirato, incontra quello che vedeva la magistratura d’allora, nelle democrazie (lo dice anche il Gucciardini, lo storico, non Roberto, l’antimachiavelli, “mai a Firenze tirannia nocque tanto quanto le sue repubbliche”). Tutta la sua esperienza di Questore lo portò non tanto a una sfiducia (non è uno sfiduciato Pizzuto, è un grande poeta en prose, non racconta mai, non narra, non usa il passato remoto, e se ne vanta, usa la forma imperfetta o il presente storico). Ma tutto ciò è legato al fatto che egli intravedeva nella a volte sciaguratamente eroica magistratura (e la Sicilia ne sa particolarmente qualcosa nelle stragi, nella committenza delle stragi di Stato) una sorta di divinità perdente in partenza, un po’ come la storia e lo storicismo sui fatti e sui misfatti, perché non ha più l’autorità, l’autorità anche – perdonatemelo – vanitosa. Anche nell’eroismo di questa magistratura, Pizzuto vedeva il giudicare, il giudizio; non quello kantiano delle categorie, ma il proprio giudizio di assolvere o condannare, ma mai di penetrare la vita, cioè l’uomo. Per questo si dimise, e per questo si dimise nell’oblio odierno come scrittore, scrivendo, scrivendo scrittura. Non ci è contemporaneo, come io non vi sono e non mi sono contemporaneo. Signorina Rosina è appunto tutto ciò che è larva, è questo rimemorare incantevole delle cose che non sono.

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