LOCARNO 57 – Identità perdute e nuove vie

Quella del cinema di impegno civile sembra essere ormai l'unica strada percorribile per il festival di Locarno, stretto tra Cannes e Venezia, lontano dai fasti del passato, ma forse capace di trovare una nuova identità e porsi come alternativa alle altri grandi rassegne internazionali.

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Stretto nella morsa di Cannes e Venezia, il festival di Locarno è ad alto rischio di perdita di identità. Se qualcosa doveva emergere dalla sua 57° edizione è proprio questo: Locarno non sa più chi essere. Non sa più se continuare a considerarsi, per ambizione e dimensioni, il «più piccolo dei grandi festival e il più grande dei piccoli festival» come si diceva una volta, oppure se trasformarsi in una credibile alternativa all'omologazione da rassegna internazionale cui rischiano di appiattirsi Cannes e Venezia. Una dicotomia drammatica, dal momento che mai come quest'anno si è percepita l'esistenza di due anime: una che vorrebbe gareggiare alla pari con italiani e francesi ma vive ormai in agonia e l'altra che si pone nel segno della ricerca e dell'impegno civile, e riceve sempre più consensi.

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Cominciamo dall'agonia. Quest'anno il programma della Piazza Grande era imbarazzante, una banchetto di nozze con i fichi secchi cui si è aggiunta l'intromissione dei temporali estivi: due autori bolliti da tempo come Leconte e Schlöndorff, le solite commediole europee tanto carine e delicate, quanto inutili e brutte, qualche piacevole replica del passato (Piombo rovente, Queimada e Tutti gli uomini del presidente), un omaggio a Olmi (Pardo d'Oro alla carriera) e un solo filmone americano, The Notebook di Nick Cassavetes, pomposo e sfacciatamente meló ma se non altro sincero. Un programma povero povero, insomma, cui si è cercato inevitabilmente di dare lustro e originalità (con l'introduzione, ad esempio, del documentario sulle trame segrete contro Clinton The Haunting of the President), ma che ha mostrato inquietanti crepe nella struttura del festival.


Per il Concorso Internazionale le cose sono andate meglio, ma solamente perché la direzione, impossibilitata ormai ad accedere ai grandi nomi da festival, una volta pagato il tributo al cinema di casa (con il terrificante Promised Land) o a qualche presunto autore (Laurence Ferriera Barbosa, Jun Ichikawa, Laetitia Masson), ha potuto contare su ciò che sta diventando la sua direzione privilegiata: il cinema di impegno civile che guarda alle tragedie di oggi e di ieri con occhio indignato e commosso; che spesso evita questioni di messinscena ma cerca l'assoluzione nei temi e negli intenti progressisti.


Il film vincitore, l'italiano Private di Saverio Costanzo, storia di una famiglia palestinese reclusa nella propria casa al confine con un insediamento israeliano, va in questa direzione, così come pure il sudafricano Forgiveness, l'indiano Black Friday, l'inglese Yasmina e, fuori dal concorso, la sezione Human Rights, il focus sul cinema «invisibile» del Mekong, il documentario sull'amministrazione Bush e la guerra in Irak Uncovered e l'intera retrospettiva sul giornalismo «Newsfront», che, oltre ai più grandi film della storia sull'argomento (da Quarto potere a Close-Up, passando per le mitologie hollywoodiane e le screwball comedy, Rosi e Depardon, Marker e Moore), ha proposto il documentario su Al Jazeera Control Room e la serie TV di Robert Altman Tanner 88, resoconto della campagna presidenziale di un finto candidato democratico nelle elezioni del 1988 che il regista ha aggiornato a questi nostri tempi complessi, bugiardi e politicamente sconcertanti.


 

Locarno, insomma, nel momento stesso in cui cerca ancora di percorrere la vecchia strada, ha già deciso di imboccare quella nuova, trasformandosi quasi involontariamente in un festival tematico, finalmente mosso da intenti chiari e definitivi, e non più da ambizioni scopiazzate e oltre le proprie risorse. A fare le spese di tutto questo, però, è la sezione che negli anni passati aveva fornito le sorprese più interessanti, quella dal titolo un po' vago di «Cineasti del presente» ma che in un magma spesso sorprendente di fiction, non-ficiton, video e pellicola, sapeva essere testimone «del presente», non in senso storico, civile o politico, ma, piuttosto, in una prospettiva cinematografica aperta, viva, senza barriera di genere o di argomento.


Quest'anno, invece, poche sorprese (e di quelle poche se ne è parlato nei servizi precedenti) e tanta noia, tanto appiattimento, tanto cinema che, se è d'autore, non sa di che parlare (crisi esistenziali, va bene, ma fino a quando?) e se non è d'autore, o è pieno di idee come il ceco Czech Dream o altrimenti si disperde in un documentarismo ai limiti dell'etnografico e in un pauperismo digitale che ormai non ha neanche più il sapore della freschezza espressiva.

Di cineasti del presente, a Locarno, alla fine, se ne è vista una soltanto: Catarina Ruvio, la trentatreenne regista portoghese di André Valente, il film più bello veduto, l'unico in cui fosse presente un'idea di messinscena rigorosa e pensata, tutta giocata sul rapporto intimo tra lo spazio e la figura umana (un bambino, la madre, un emigrato russo), e sulle potenzialità drammatiche di un montaggio ellittico ed essenziale. Un film piccolo (75 minuti appena) ed emozionante, che suona come una lezione di regia e, nella celebrazione dei mondi segreti creati dall'amore e dall'affetto, anche come una lezione di vita.

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