Making of, di Cédric Kahn

Si riallaccia alla tradizione autoriale del dietro le quinte, del “film nel film”. Ma in verità è una commedia sulle persone e sul lavoro. VENEZIA80. Fuori concorso.

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Una macchina sfonda il cancello di una fabbrica dando il via a una occupazione di operai, che con rabbia invadono la piazza, entrano nell’edificio. Sembra l’inizio di uno di quei film convulsi e impegnati diretti da Stephane Brizé o dai fratelli Dardenne e invece la scena si interrompe improvvisamente: il regista chiama lo stop perché un operatore entra nell’inquadratura. Irrompe quindi il set e i suoi imprevisti tragicomici, come in Effetto notte di Truffaut o in Irma Vep di Assayas, evidenziando quindi un preciso legame al sotto-genere autoriale del “cinema nel cinema”. Eppure il tono non è quello del citazionismo o dell’esaltazione della magia del cinema. La classica divisione in tre atti sta lì a incanalare il caos del set cinematografico in una dimensione affettuosa e divertita, quasi teatrale: abbiamo quindi la presentazione dei personaggi e del contesto, la crisi che sembra irrimediabile e la risoluzione finale.

Making of è soprattutto una commedia sulla fatica del cinema, sul peso del cinema nella vita privata di chi lo realizza quotidianamente ma anche sulla sua necessarietà, sulla sua caparbia resistenza alle questioni sentimentali e finanziarie del mondo di oggi. “Il cinema è una droga” è la verità fassbinderiana con cui il produttore alla fine saluta lo stremato regista Simon (Denis Podalydès), mentre fuori i capannoni del set vengono smontati ponendo fine non tanto all’incanto del cinema, quanto alla sua routine lavorativa e comunitaria. Dietro lo schema prestabilito del “meta-cinema” c’è anche stavolta un regista in crisi creativa, che ha un matrimonio in via di esaurimento a Parigi e trascorre settimane lontano da casa in una città di provincia, provando a portare a termine tra mille difficoltà finanziarie e senza compromessi il suo film “politico” sullo sciopero proletario. Lui cerca, inutilmente, di tenere sotto controllo tutto e tutti: l’attore protagonista Alain (un incontenibile Jonathan Cohen), in cerca ostinata e maniacale della “verità”, la mancanza di finanziatori che mettono a repentaglio le paghe di tutta la troupe, i produttori che vorrebbero imporre un lieto fine, il giovane assistente suo fan, che da semplice comparsa diventa il realizzatore del backstage del film, si innamora della coprotagonista femminile e nel quale Simon vede il suo alter-ego giovane.

A un certo punto il film di Simon si interrompe perché dopo settimane di attesa i soldi non arrivano più. Gli attori e gli operatori devono decidere se portare a termine le riprese senza compensi economici, in nome dell’arte. La storia di sfruttamento lavorativo che il regista vuole raccontare e denunciare fa irruzione nella vita “reale” del set. La verità si soprappone alla fiction e paradossalmente il “making of” che sta girando il ragazzo potrebbe essere l’unico vero film possibile. Forse anche l’unico interessante e “reale”. Ma non è un film di Godard. A fronte di tutte queste linee teoriche e ipotetiche deviazioni sperimentali, Cédric Kahn realizza in verità un film semplice, molto umile e “attaccato” alle persone e alle loro nevrosi, ma allo stesso tempo lucido nel centrare il bersaglio sui compromessi e sulle contraddizioni tra cinema d’autore e capitalismo. Alla fine i personaggi e il set diventano tutt’uno con gli operai e la fabbrica. E il film diventa soprattutto una questione “pratica”. Una questione di “lavoro”.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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Il voto dei lettori
3.25 (4 voti)
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