Manipolare le immagini per farle convivere – Pietro Marcello al PerSo

Da Il passaggio della linea a Le vele scarlatte, Marcello fa tesoro delle esperienze del documentario: affrontare gli imprevisti e venire incontro alla realtà, anche sul set. L’incontro di Perugia

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“Non credo nel cinema del reale. Si tratta sempre di una trasposizione del reale. Ciò che facciamo noi è manipolare le immagini per farle convivere.”

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Pietro Marcello ha raccontato il suo rapporto con il cinema, la sua filmografia e la sua storia all’incontro con il pubblico, moderato da Giovanni Piperno, alla IX edizione del PerSo Film Festival, nel cinema Postmodernissimo nel cuore di Perugia.

La prima passione del regista è stata la pittura, ma “ero un po’ mediocre”, confessa. “Tanti registi hanno provato a fare qualcosa seriamente e poi, non riuscendo, sono passati al cinema.” Le scuole di cinema erano troppo costose o comunque inaccessibili. All’epoca le migliori erano quella polacca, il VGIK di Mosca, il Centro Sperimentale, “ma era impossibile entrare”, dice con una leggera amarezza. “Oggi con un telefonino si possono fare dei bellissimi film, io al tempo non conoscevo lo strumento della telecamera, giravo con un otturatore a 5000. Attraverso le telecamerine poi ho cominciato a fare Scampia.

In quegli anni Marcello si impegnava per recuperare uno spazio sociale, nell’area di Montesanto di Napoli. Il DAM, le cui iniziali fanno riferimento a Diego Armando Maradona, era un “rifugio per banditi”. “Abbiamo cominciato a ripulire questo posto e io mi sono occupato della saletta cinematografica. Non eravamo legati alla politica. Goffredo Fofi ci aiutava per i film; la mattina si proiettava il cinema delle origini, il pomeriggio il pubblico era formato da bambini e mostravamo film particolari. La sera invece era dedicata agli universitari e ci dedicavamo a un cinema più punk.”

Il regista inizia poi, insieme a Danilo Montaldi, a fare inchieste orali. “Filmare è sempre una violenza, preferivo ritrarre attraverso il suono. Giravo con un magnetofono. Per il documentario Il passaggio della linea portai a casa tantissimo materiale, poi alla fine parlano solo per 8-9 minuti. È stato quando ho conosciuto Arturo Nicolodi che ho deciso. L’ho incontrato in treno, mentre mangiava una banana ha cominciato a raccontarmi. Era stato tenente e quando si è ritrovato in Grecia ha dato inizio al progetto Europa. Fino al ’53 era uno dei più ricchi di Bolzano, vendeva legna. Poi sono iniziati i processi, poi i treni. Ha passato trent’anni in treno per evitare le case per anziani. E beveva solo Coca Cola. Un giorno ho ricevuto una chiamata, “Non ce la faccio più”, mi ha detto Arturo; è andato in una casa di riposo e siamo andati a trovarlo a Natale qualche volta…

Girato nel 2006 in minidv e uscito nel 2007, Il passaggio della linea è stato recentemente restaurato. “Eravamo tutti inesperti. Siamo partiti con 300 euro. Ho fatto tutta la linea ferroviaria italiana. Questi treni erano “l’elogio della lentezza”. Il treno in movimento contro la staticità degli interni; il tempo presente, il tempo passato; forse il presente era nel tempo futuro.”

Grazie al successo de Il passaggio della linea, Marcello viene contattato dai Gesuiti che gli commissionano un film per raccontare il tessuto sociale delle aree dimesse e abbandonate, vicino al porto di Genova. “Conoscevo Genova tramite i racconti di mio padre. Una città di mare dove il mare lo senti molto più che a Napoli. Non esisteva già più il tessuto sociale, non c’erano bambini per strada. Tanti pensionati e tanti emigrati; il quartiere era molto buio. A me interessava raccontare questi residuali: il rapporto tra pubblico e privato. La vera scommessa era far convivere gli archivi con il resto del girato. Sara Fgaier, la montatrice, non aveva mai utilizzato gli archivi.”

Sorprendentemente, nonostante le tematiche trattate, i gesuiti hanno apprezzato il documentario La bocca del lupo. “Hanno capito il sentimento del film. Questi due personaggi che si proteggono per la vita… Enzo l’ho conosciuto in panetteria. Faceva un po’ lo sbruffone, mostrava le pallottole che aveva nelle gambe. In poco tempo, nella sua mente era diventato il mio soldato: doveva difendermi. Era una sua dimostrazione d’affetto. La notte era un po’ pericoloso portarselo appresso. Faceva il melonaro e dopo aver spaccato i meloni con i coltelli se li portava dietro, aveva sempre i coltellacci in tasca.” Il pubblico, divertito dal dietro le quinte, chiede più informazioni sull’altro personaggio del film. “Mary invece veniva da una famiglia romana importante. Si vergognava di Enzo. Era stata costretta a lasciare Roma perché non avevano accettato la sua sessualità. La scena del film in cui si raccontano non è un’intervista ma una confessione. Non ci sono tagli perché non c’erano domande. Si è trattato di una vera e propria documentazione.”

Diversamente, quando Marcello si è confrontato con il regista armeno Artavazd Pelesjan ha dovuto fare i conti con il silenzio. “Questo film è stato un diploma per me. Amo il cinema francese e il cinema russo e sovietico. All’inizio de Il silenzio di Pelesjan si fa riferimento al montaggio a distanza. In realtà nei film di Michail Romm e Elem Klimov ci sono già accenni di questo tipo di montaggio. È stata la montatrice di Romm a idearlo. Pelesjan utilizzava gli archivi per gestire la censura. Ci sono tante chiavi di lettura nei suoi lavori.

Pietro Marcello è poi passato a fare film di finzione. “È più facile fare film di finzione, è molto più complesso fare un documentario. Il documentario ti insegna l’imprevisto. Io sono un archivista, tutto ciò che faccio diventa archivio. Mi affascina l’aspetto alchemico della pellicola, non so mai come verrà fuori. Sviluppo pellicola per hobby.”

Bella e perduta è stato girato in pellicola scaduta. La lavorazione di questo film ha insegnato al regista che con questo tipo di pellicola non si possono girare gli interni. “Infatti mi muovo sempre in esterni. Scrivo le sceneggiature sapendo già cosa posso e cosa non posso fare.” Al regista avevano rimproverato la scarsa esperienza sui set. “Devi essere abituato all’imprevisto e questo te lo insegna il documentario. Per Le vele scarlatte avevo due macchine da presa sul set. Il tempo è tiranno. Staccavo il cavo del controllo video, giravo senza ciak.” Film realizzato durante il Covid, con un’economia di guerra. Non è un film nato dalla necessità: Marcello è stato conquistato dal romanzo di Aleksandr Grin e voleva restare in Francia.

Il regista torna al documentario con Futura, un’opera collettiva, “un tentativo di mappare la gioventù in Italia. Un film propedeutico. Da Futura è nato Europa, un film collettivo che stiamo montando. C’era l’idea di andare tutti insieme, ciascuno mutuale all’altro: un servizio civile del cinema. Il documentario collettivo è un qualcosa di molto difficile, mi viene in mente Loin du Vietnam di Resnais, Godard, Chris Marker…” 

Il regista ha concluso parlando di ciò che gli sta più a cuore: il bisogno di riformare le scuole. “A me interessa l’insegnamento. Dobbiamo dedicarci alle nuove generazioni. Il nostro Paese ha bisogno di riforme e anche le scuole di cinema andrebbero riformate. L’educazione e l’insegnamento sono le cose per me più importanti. Per quanto riguarda il cinema… Tanto ci restano pochi anni, tra poco l’intelligenza artificiale dominerà tutto. Ma concentriamoci sull’utopia. Per me è linfa vitale. Abbiamo sempre bisogno di un’utopia.”

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