Mé el Aïn, di Meryam Joobeur

Pur con delle imprecisioni ha il merito di affrontare un tema spinoso e attuale come quello del fanatismo religioso, con un approccio plausibile alla banalità del male. BERLINALE74. Concorso

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Dopo Gloria di Margherita Vicario, il secondo debutto in concorso alla 74° Berlinale è ancora opera di una donna, un lavoro spettrale, fatto di visioni e profezie. La regista tunisina canadese, di stanza a Montréal, sceglie di raccontare una storia familiare, stravolta all’improvviso dalla partenza di due figli, Mehdi e Amine, per andare a combattere in Siria. Una guerra quella siriana già vista in tutta la sua violenza e crudeltà al festival nel film di Peter Trifunovic, The Strangers’ Case, con Omar Sy nei panni di un trafficante di esseri umani. Qui il conflitto entra indirettamente, con le sue identiche conseguenze nefaste, e si scaglia contro il disastro provocato dal fanatismo religioso, i rituali d’affiliazione, le regole punitive. Aicha, che è dotata di un potere di preveggenza, e suo marito Brahim sono dei semplici contadini. Lo spazio e le forme sono quelle della campagna, degli animali in cortile e del lavoro nei campi che lambiscono il mare. Sono persone devote, ma la loro educazione rifiuta l’ottusità del dogma, piuttosto è fatta di amore e gesti affettuosi. La loro apprensione aumenta quando di ritorno dal fronte arriva Mehdi insieme ad una donna, Reem, con indosso un niqab che, tranne per gli occhi, le copre ogni altra parte del corpo. E se non bastasse recano la notizia della morte del fratello. Da quel momento l’equilibrio familiare ne esce incrinato, Aicha cerca in tutti i modi di difendere il figlio, nonostante gli errori, ed è orientata al perdono, mentre Brahim è deluso e arrabbiato dal sospetto che Medhi abbia influenzato il fratello e sia responsabile della sua tragica sorte. Ma più di tutto le sue angosce sono legate al non riuscire a spiegarsi cosa possa aver spinto i figli ad intraprendere la strada del terrorismo, accusa di cui sono colpevoli in patria, e la preoccupazione di tutelare quello più piccolo, Adam, da un esempio nefasto.

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Meryam Joobeur si serve del potere della protagonista, fatto di messaggi più o meno criptici e simbolismo, e li inquadra dentro uno scenario in rapido sgretolamento, popolato dalle ombre dei fantasmi, immagini molto potenti che le scogliere ed i colori naturali muovono di luce riflessa, donando il tono e l’umore, fino a farle sparire in un tempo dove la realtà ed il sogno si confondono. La minaccia dell’oscurantismo in nome della fede è la deriva psicologica, e qui il modello di rappresentazione sono dei primi piani esasperati dei volti, tecnica adottata fino all’abuso, che se per Aicha funziona per la grande abilità facciale dell’attrice Salha Nasraoui di restituire gli stati d’animo, per gli altri appare meno efficace e quindi ripetitiva. Con tutte le imprecisioni del caso, resta un esordio molto convincente, ed ha il grande merito di affrontare un tema radicale, quello del fondamentalismo. Il film cerca di mostrare quanto poco di divino ci sia nella decisione di votare la propria vita a rincorrere dei paradisi inesistenti, e come le cause siano quasi sempre legate all’umana insoddisfazione.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.4
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