Middle East Now – Intervista a Mohsen Makhmalbaf

In occasione del festival Middle East Now abbiamo incontrato il regista iraniano Mohsen Makhmalbaf per parlare delle tensioni in Medio Oriente e di cinema civile

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Il festival Middle East Now, dedicato alle culture del Medio Oriente e del Nord Africa, ha ospitato nella sua quattordicesima edizione (Firenze, 10 – 15 ottobre 2023) il regista Mohsen Makhmalbaf, con l’anteprima italiana del suo ultimo film Talking With Rivers, cui è seguita la proiezione di The List, diretto da Hana Makhmalbaf. Entrambi i film, come altri prodotti dalla Makhmalbaf Film House, sono dedicati all’Afghanistan. Il primo mostra un dialogo tra due amici, che sono l’Iran e l’Afghanistan (a partire dall‘invasione sovietica nel 1979 fino al recente ritorno dei Talebani), mentre il secondo racconta il tentativo della famiglia del regista di mettere in salvo quante più persone possibile nelle ore in cui le forze occidentali nell’agosto 2021 hanno lasciato la capitale Kabul nelle mani dei Talebani, pronti a reprimere ogni forma di dissenso.

Maestro, il film che presenta al festival Middle East Now a Firenze è Talking With Rivers, nel quale assistiamo ad un dialogo tra Lei e un amico, Jawanmard Paiez, come personificazione di due paesi, l’Iran e l’Afghanistan. La conversazione è montata insieme a lunghe sequenze dei molti film che Lei ha diretto o prodotto in Afghanistan, tra i quali il più celebre qui è Viaggio a Kandahar. Ricordiamo inoltre Two-Legged Horse, diretto da Samira Makhmalbaf. Durante le riprese di quel film avete subito un attentato riconducibile al regime iraniano. Raccontare l’Afghanistan è un dovere civile, nonostante i rischi che comporta sul campo?

L’Afghanistan è al confine con l’Iran e nei due paesi si parla la stessa lingua, circa metà degli afghani parlano persiano. Anche la Storia è comune. Ed entrambi i paesi hanno un regime ideologico, sono guidati da estremisti che usano le persone come manodopera. I bambini sono costretti in povertà e le donne vengono oppresse. L’Iran è più ricco dell’Afghanistan grazie al petrolio, ma le persone comuni non sono ricche e provano empatia per i rifugiati afghani, che sono circa tre milioni. Per questo motivo trent’anni fa ho realizzato il film Il Ciclista, con protagonista un rifugiato afghano in Iran che la povertà costringe a pedalare ininterrottamente [per raccogliere i soldi necessari per le cure di ha bisogno sua moglie, ndr]: in questo c’è un parallelismo con il destino del suo paese di origine, diventato al centro di un mercato di interessi sempre maggiori. Anch’io provo empatia rispetto al popolo afghano. In un altro mio film, Alfabeto afghano (che si può trovare su YouTube) i protagonisti sono i bambini, i quali per anni sono stati privati [dai Talebani] dell’istruzione. Come si può accettare l’idea che i bambini non possano andare a scuola solamente perché sono rifugiati? Sento di avere una responsabilità nei loro confronti. Adesso anch’io sono un rifugiato, nel Regno Unito. So cosa significhi.

E proprio nel Regno Unito Lei è stato interrogato dalle autorità per la sua partecipazione alla vita politica in Iran molti anni prima.

Sì. La mia famiglia ed io abbiamo ottenuto i passaporti solo dopo moltissimo tempo dalla richiesta, ma è stato orribile vederne rinviare il rilascio, per anni, solamente perché in Iran ero stato in carcere, messo lì da un regime dittatoriale. Ho detto loro: “Vergogna, state sostenendo un nuovo dittatore!

Le va di parlare della guerra ricominciata la settimana scorsa in Palestina? [l’intervista si è tenuta il 15 ottobre 2023]

Certamente. Quando in passato sono stato in Israele per dirigere film e partecipare a festival sono stato criticato da politici e intellettuali iraniani: farlo è considerato un tabù, perché Israele è un paese occupante. Ma lì chi ha meno di cinquant’anni non è responsabile dell’occupazione. Palestina e Israele hanno bisogno di governi laici. Ora non ce l’hanno. E questo è il motivo per cui ho un amico palestinese che ha trascorso diciotto anni in un carcere israeliano. Ne ho parlato con lui al mercato di Gerusalemme e mi ha detto: “Come possiamo risolvere la situazione? Alla fine dovremmo vivere insieme“. E sono anche stato in una casa a due piani, in uno vivevano persone ebree e nell’altro persone palestinesi. Ma il governo di Israele dice ai cittadini: “L’Iran ci attacca, siate pronti!” e “I palestinesi vogliono ucciderci, siate pronti!“, creando più paura di quanta ce ne sia già. Così la pace viene presentata come pericolosa.

Tornando all’Afghanistan e ai suoi film, quali scelte dovrebbero compiere i paesi occidentali per rompere i legami con il regime talebano?

L’Afghanistan in passato era un paese normale. 46 anni fa era un paese come il Bangladesh. L’Unione Sovietica invase l’Afghanistan per portarci il socialismo e fece morire due milioni di persone. Dopo dieci anni tornarono e a quel punto l’Occidente sostenne il popolo afghano nella lotta contro i comunisti, ma per vendetta della guerra in Vietnam. In seguito l’Afghanistan, che ha un popolo formato principalmente da contadini, si è dovuto armare per la guerra civile, la quale ha provocato 50 mila morti solo nella città di Kabul. Dopo pochi anni di guerra civile il Pakistan ha inviato i Talebani ad occupare l’Afghanistan (metà della terra del Pakistan appartiene all’Afghanistan), per evitare che gli afghani chiedessero indietro i propri territori. Dopo pochi anni c’è stato l’attacco alle Twin Towers. Bush annunciò “Vi portiamo noi la democrazia!” e così per vent’anni ci sono stati gli occidentali. Migliaia di afghani sono stati uccisi, ma non è morta la democrazia, non la si può esportare con un esercito. Il popolo ha bisogno di istruzione e di risorse economiche. Mandare esclusivamente soldati e colpire i terroristi non porta la democrazia, e il risultato è stato il ritorno dei Talebani. La democrazia è fragile. I bambini afghani non potevano andare a scuola, le donne non potevano lavorare, né viaggiare in assenza del marito o del padre. La libertà delle donne è completamente scomparsa e questa è una vergogna per l’Occidente, che è rimasto a guardare senza fare nulla. Una poesia persiana di Sa’di di Shiraz dice che se la tua mano soffre, tutto il tuo corpo soffre, e non possiamo considerarci esseri umani se non ci preoccupiamo degli altri esseri umani.

La poesia non può mai mancare nella vita quotidiana degli iraniani.

Sì, perché non abbiamo avuto filosofi tanto quanto in Occidente, abbiamo avuto più poeti.

Ha girato in Italia, nel 2019, tra la Basilicata e la Calabria, un film partecipato, dal titolo Marghe e sua madre, che è passato ad alcuni festival ma in Italia non ha avuto una vera distribuzione. Come mai? Ci sarà la possibilità di vederlo?

Perché è un film critico nei confronti dell’Italia. La Rai lo ha co-prodotto. L’ho girato a Matera, ponendomi come uno specchio: ho contestato il sistema italiano, la polizia italiana, il capitalismo italiano. Credo sia questo il motivo per cui non ve lo fanno vedere.

Non si aspettavano che avrebbe fatto questo tipo di film?

Ma io avevo prima inviato la sceneggiatura.

Dunque è stato censurato anche in Italia.

Sì. Il film è andato a Locarno. Poi c’è stata la pandemia e quindi molti film non hanno circolato, e questo è un altro motivo. Sono interessato all’esercizio del pensiero critico e la mia critica non significa “sono migliore di te”. Con ogni film della Makhmalbaf Film House creiamo uno specchio che poniamo di fronte alla società: quando siamo in Iran creiamo uno specchio per gli iraniani, quando siamo in Afghanistan creiamo uno specchio lì. Questo non è solo un problema politico, ma anche culturale: per cambiare la cultura dobbiamo criticarla, altrimenti ripeteremo sempre gli stessi meccanismi e non ne usciremo.

All’IDFA Lei ha detto che quando usciamo da un proiezione di un film al cinema dovremmo sempre chiederci il suo significato, “che cosa ho imparato?“. Lei cosa ritiene di aver imparato al cinema? E in particolare, da chi?

Quando faccio un film mi chiedo: ok, cosa voglio dire e come lo voglio dire? Concetto e stile. Ho imparato molto dal Neorealismo italiano. Ad esempio da Ladri di biciclette di De Sica, La strada di Fellini, Tre fratelli di Rosi e molti altri. Il vostro cinema del passato è ricco. Il cinema iraniano si è ispirato a quello italiano e alla Nouvelle Vague francese. Sono dei Maestri per noi, ma poi facciamo cinema a modo nostro. Impariamo il modo in cui utilizzare la realtà al cinema. Rossellini in questo era perfetto, o Pasolini… Insegnano che devi essere anche tu anarchico in qualche modo, altrimenti sei un regista di propaganda.

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