Musica dal vivo e virus: a che punto siamo?

La musica dal vivo prova a sopravvivere anche durante il Covid-19: dalle “bolle spaziali” dei Flaming Lips all’esperimento sanitario della sala Apollo di Barcellona fino ai 20000 della Nuova Zelanda

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Secondo lo studio Dopo l’intervallo, condotto dalla Indigo Ltd, società di consulenza inglese che opera nel mondo delle arti e della cultura in collaborazione con Assomusica, il pubblico italiano durante la pandemia di Covid-19 ha sentito la mancanza degli spettacoli dal vivo più di quello inglese: ben il 96% degli intervistati peninsulari ha sofferto e soffre per non poter ascoltare live i propri beniamini. In questa prolungato periodo di difficoltà lo streaming prova fare da succedaneo alla necessità sociale dell’evento fisico con risultati non privi di criticità. Se un’artista del calibro di Billie Eilish il 24 ottobre 2020 è andata in diretta dalla sua città natale Los Angeles con “Where Do We Go? The Livestream“, un live che vedeva la presenza virtuale di alcuni fan tramite un wall digitale realizzato da lili Studios ed acquistabile nelle successive 24 ore on-demand, la situazione resta complessa per tutti quegli altri musicisti che non possono vantare faraoniche produzioni.

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La forma-concerto classica sembra essere irrimediabilmente inconciliabile con il necessario distanziamento sociale che purtroppo ben conosciamo condannandola ad essere un’aporia fino alla fine di questa lunga emergenza. Ma negli ultimi mesi ci sono stati alcuni tentativi che hanno provato a sovvertire l’impossibilità del live. Lo scorso 12 Dicembre nella storica sala Apollo di Barcellona si è tenuto un concerto al chiuso che non ha fatto registrare alcun caso di covid tra i suoi 463 partecipanti. L’obiettivo principale era la valutazione dei test rapidi come soluzione per tornare a riunirci dal vivo ad ascoltare i nostri cantanti preferiti. I partecipanti allo studio, con un’età compresa tra i 18 e i 59 anni, erano stati testati prima della serata ed erano tutti negativi. Di loro, 463 hanno partecipato al concerto, che includeva 4 performance per una durata complessiva di 5 ore: il tempo medio speso da ciascun partecipante è stato di 2 ore e 40 minuti. Naturalmente rigorosissime le misure di sicurezza, supervisionate da l’ospedale universitario Germans Trias i Pujol (Can Ruti): le persone che volevano accedere al concerto sono state sottoposte a test antigenici rapidi anche durante la serata, l’angolo bar era stato allestito in un ambiente a parte, i partecipanti potevano rimuovere la mascherina solo per bere ed infine ai fumatori era stata destinata una zona esterna. Inoltre all’entrata del locale erano state state consegnate mascherine N95, ben più difficili da reperire di quelle chirurgiche d’uso comune e la ventilazione della sala è stata accuratamente monitorata, così come le code ai bagni. Dopo otto giorni, i 463 partecipanti al concerto si sono sottoposti a tampone e nessuno di loro è risultato positivo. Come si vede, si è trattato più di un esperimento clinico con condizioni di svolgimento pressoché eccezionali che di una reale serata live ma il successo dell’iniziativa potrebbe aprire le porte ad una discussione pubblica. Di ancor più difficile attuazione risulta allo stesso tempo la performance del 22 Gennaio delle “bolle spaziali” portata avanti dai Flaming Lips, storico gruppo neo-psichedelico americano.

Dopo la prima dimostrazione a giugno 2020 durante lo show televisivo di Stephen Colbert, i componenti della band si sono esibiti per 100 persone al Criterion di Oklahoma City con il pubblico diviso in 100 palle giganti e gonfiabili progettate per ospitare almeno tre persone. Le bolle erano dotate di tutti i comfort: aria fresca continuamente cambiata, speaker supplementari ad alta frequenza per sentire meglio, una bottiglia d’acqua, un ventilatore a batteria, un asciugamano. Un’ora la durata massima del concerto per avere aria sufficiente dentro la bolla mentre durante la performance una scritta argentata, Fuck you Covid, rendeva evidente il pensiero dei partecipanti e di noi tutti. Al termine della serata è avvenuta la procedura inversa: le bolle sono state sgonfiate per far uscire una fila di persone per volta. I Flaming Lips sono riusciti ad eseguire tutta la scaletta composta da ben tredici pezzi senza ostacoli dato che avevano già edotto i partecipanti sui canali social con dettagliate istruzioni relative all’evento.

Come ha detto il frontman Wayne Coyne si è trattato di “un evento molto ristretto e strambo. Ma la stramberia serve a fare in modo che possiamo goderci un concerto senza mettere a rischio le nostre famiglie“. Agli opposti di un tale livello di sicurezza sanitario si muove invece una piccola ma significativa parte di mondo, la Nuova Zelanda. Sabato 16 gennaio, a Waitangi, ben 20mila persone – record pandemico, ovviamente – hanno assistito al concerto dei Six60. Le immagini sono quasi sorprendenti per il nostro presente invece così rigidamente contingentato: la folla ha riempito il campo sportivo locale e ai fan non è stato chiesto di rispettare alcuna regola di distanziamento. C’è da precisare che il paese guidato da rappresenta un unicum: qui l’allerta per il Covid-19 è scesa a livello 1. Sul territorio nazionale ci sono ormai solo pochi casi e per lo più si tratta di casi importati o comunque isolati. Il 15 gennaio scorso i casi totali in tutto il Paese erano appena 76. Il cantante dei Six60, Matiu Walters, ha dichiarato: “Essere qui e poter stare insieme mentre il resto del mondo fondamentalmente non può ci ha fatto davvero apprezzare quanto bene il nostro Paese abbia gestito l’epidemia di Covid-19 e quanto siamo fortunati. Mi sento davvero orgoglioso“. L’auspicio che possiamo farci è che presto tutte le popolazioni del pianeta possano condividere un orgoglio simile saltando insieme abbracciati su tappeti sonori live.

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