Natural Light, di Dénes Nagy

Nel suo primo lungometraggio di finzione Nagy sceglie di raccontare la guerra, con il suo lascito di paura e terrore, nei boschi sterminati della Russia. In concorso alla Berlinale71

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La guerra è un luogo buio, violento e crudele, non ci sono soltanto i terribili rumori della battaglia e dei mortai, il tributo pagato direttamente con il sangue, l’incubo coinvolge ogni aspetto di un paese coinvolto, ed allunga la minaccia sulla componente più debole ed inerme, donne, anziani e bambini. Il protagonista di Természetes fény, István Semetka, fa parte di un’unità speciale ungherese, nazione alleata dell’Asse, incaricata di stanare i partigiani nascosti tra i boschi dello sterminato continente sovietico, con il compito di viaggiare di villaggio in villaggio per sfiancare la resistenza e favorire la defezione dei contadini. La storia, tratta dal racconto omonimo di Pál Závada, rinuncia di fatto a dei significativi punti di svolta narrativi eclatanti, rende invece partecipi di un vortice emotivo, fatto di dilemmi morali ed iniquità, in un territorio ostico, dominante, ed i pericoli si perdono nel fango, l’annuncio di un inverno dell’animo. L’eco della battaglia scompare nel ventre subdolo di una situazione dove il male circola liberamente.

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Proprio uno dei villaggi visitati dal contingente militare finisce al centro della vicenda, un’occupazione guardata con la diffidenza, una ritrosia restituita dai visi accigliati, lo sguardo sempre rivolto al terreno, ed un’indifferenza molto vicina al disprezzo. Le espressioni facciali sono parte fondamentale del film, spesso inquadrate in primo piano, ed attraverso i connotati il regista riesce a restituire il clima insopportabile, la mancanza di fiducia, il sospetto reciproco, tutte sensazioni conseguenti ad un atto di ostilità. Il quadro già ampiamente compromesso precipita dopo un conflitto a fuoco, e l’uccisione di un comandante diventa un momento quasi pretestuoso per ordinare una ritorsione. Un episodio utile a sgombrare il campo dal dubbio, e cadere infine nell’insensatezza dello scontro, sotto lo sguardo di un ambiente maestoso ed impassibile.

L’occhio della camera si perde fino a scomparire tra gli alberi, nell’apoteosi naturale del distacco dalle miserie umane, riprese in una perpetua oscurità, prede della notte e del gelo, nel rifiuto della luce.

Tutto il quadro lascia poco alla ricostruzione epocale ed abdica al discorso politico d’ufficio, rende i personaggi in stracci ed uniforme protagonisti di un racconto senza tempo e collocabile ovunque la prevaricazione, l’insolenza, e le mille facce dell’orrore abbiano messo piede. In tale ricerca del trascendente, le responsabilità del singolo, chiare e ben definite, vengono comunque legate ad un disordine più grande, tutti schiavi di una sovrastruttura, tutti succubi di un sistema tirannico o un destino crudele, interessato a tirare le fila su degli esseri disorientati dalla paura del massacro, disposti a quel punto a mettere le mani su una riserva di odio pur di sopravvivere. Un notturno dominato dal tradimento, in nome dell’ideologia del terrore, la palude come preludio di un disastro, su una terra entrata nei manuali di storia per essere la tomba di diversi imperi, lontana ed imprendibile.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.8

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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