Non allinearsi. Intervista a Marco Amenta
Il regista ci ha parlato di Anna, film premiato dalla FEDICa Venezia80, e del suo racconto al femminile, alla ricerca di uno sguardo particolare e non allineato
È una tattica comune dei giorni nostri mascherare cambiamenti arbitrari per passaggi obbligati. Quando poi le catene dell’immaginazione perdono la loro presa, si passa con grande semplicità a ricatti e imposizioni. Adeguarsi è, spesso, la scelta più facile. Per Anna, la protagonista dell’omonimo film di Marco Amenta, presentato alle Giornate degli Autori di Venezia 80 e premiato dalla FEDIC, non è però una via percorribile. Anna è una pastora e vive in Sardegna. È indipendente e decisa, sa cosa vuole e non si cura dei ronzii che questa sua determinazione può creare. Quando le mire di una multinazionale si posano sui terreni adiacenti alla sua casa, sembra costretta a rinunciare alla vita che si è costruita con le sue mani. Il padre di Anna viveva lì da tempo immemore, ma non ci sono atti che ne attestino la proprietà. La burocrazia è impietosa e le pressioni del paese, sotto ricatto occupazionale, si fanno sempre più forti. Anna, però, ha tutta l’intenzione di resistere. Abbiamo discusso del film, del suo impegno civile, delle sue influenze documentaristiche con il suo autore, Marco Amenta.
Cosa significa per lei il riconoscimento ottenuto dal film a Venezia?
È stato un onore perché il premio della Federazione italiana dei cineclub è rivolto a tutti i film del Festival. Sono molto contento di questo riconoscimento che dà molto valore al film e secondo me è importante anche in un momento storico come questo, perché tengo tanto ad Anna. Oltre al suo lato artistico per la storia umana e personale, il lato cinematografico, il gusto cinematografico. C’è un lato civile, perché questo film comunque tocca due dei due temi che sono purtroppo di grande attualità, quale quello della violenza sulle donne e della tutela dell’ambiente che vengono dopo la necessità di coinvolgere lo spettatore in una dimensione altra e sono certo che il premio aiuterà Anna nel suo percorso nelle sale.
Da cosa nasce l’idea di Anna e la volontà di raccontare una storia ambientata in Sardegna?
Anna è ispirato a una storia vera accaduta in Sardegna qualche anno fa, quindi era inevitabile che fosse ambientato lì. Comunque, è il secondo film che faccio in Sardegna, mi sono trovato benissimo sia con la Film Commission, che funziona molto bene e aiuta un regista dalla genesi fino alla distribuzione, sia con la gente.
In Anna c’è chiaramente il tema di una tecnologia, quasi aliena, che irrompe in un contesto quasi ancestrale. Com’è stato girare in quelle zone?
È ancora una regione che ha grandissime location, c’è tantissima natura ancora selvaggia, non deturpata, ancora libera diciamo dal cemento. Sono luoghi ormai difficili da trovare in Sicilia o al sud Italia. In Sardegna ancora la battaglia si può combattere. L’obiettivo era raffigurare sì un paesaggio selvaggio, aspro, tra pietre e sole cocente, senza edulcorare e richiamandosi alle vecchie tradizioni. La pastorizia rappresenta il rapporto strettissimo della nostra protagonista con la natura, che poi verrà messo in difficoltà e quasi distrutto. I mezzi meccanici penetrano nella sua fattoria e nella sua vita. Per lei non è una lotta ambientalista ideologica, è una battaglia per salvare sé stessa da una forma di violenza metaforicamente simile a quella subita nel suo passato, in un ritorno di maschilismo. Le macchine distruggono la terra come era stato ferito il suo corpo.
Il personaggio di Anna si scontra, comunque, con un’ideologia, con un pensiero che si manifesta anche come una violenza psicologica comunitaria.
Anzitutto, gli speculatori pensano con arroganza che lei, in quanto donna sola, possa esser cacciata via facilmente. Invece lei resta, esiste e resiste. Crea lo sconcerto generale, visto che non c’è nessuno che crede che lei possa opporsi come Davide a Golia al femminile. Il paese pensa di poterla minacciare e farle pressioni psicologiche e fisiche. Nonostante si confronti con uno strapotere economico, fisico e sociale, lei resiste.
La sua battaglia comincia a essere efficace nel momento in cui diventa comunitaria. Quanto è importante questa dimensione?
Come diceva Gramsci, “odio gli indifferenti”. Anna inizialmente combatte da sola e chi le sta attorno si trova in una zona grigia di indifferenza, quando non la osteggia apertamente. È la sua determinazione che fa breccia in quelli che sono in grado di percepire l’importanza di non cedere al ricatto occupazionale e alle speculazioni edilizie. È il suo esempio particolare a risvegliare gli animi.
Ha costruito molti personaggi femminili nella sua carriera. Come pensa sia cambiato il modo di scriverli?
La società sta accettando che si rompano degli stereotipi. La figura della donna nel cinema ora può avere un lato oscuro, può essere libera e irriverente, come Anna. Il cambiamento è in atto, ma la battaglia è ancora lunga, come si può vedere dal discorso pubblico di questi giorni sugli stupri, con l’accusa di essersela cercata. Anche per questo Anna è un film realizzato in partnership con l’associazione “Una, nessuna e centomila”, che combatte per una condizione egalitaria della donna nella nostra società.
Anna è un personaggio tutt’altro che puritano. Come ha messo in scena il suo corpo e com’è stata la collaborazione con la protagonista Rose Aste?
Per questo la mia montatrice francese, un po’ sessantottina, dice che è un film profondamente femminista. Era giusto per me mostrare questi lati moderni della sua personalità, compresi i suoi lati oscuri, ma soprattutto con le sue libertà. Durante le riprese è stato creato un rapporto di fiducia tra me, Aste e il direttore della fotografia, nelle settimane precedenti alle riprese, di preparazione. Si è calata in questo mondo tra cielo e terra, popolato da animali, abbiamo discusso le scene e una volta entrati nel personaggio penso che ai grandi attori si possano chiedere anche scene come quella del bagno nuda in mare. È comunque una nudità che non è provocatoria, è pura armonia con l’ambiente attorno a sé.
Lei è stato autore di diversi documentari e reportage. Cosa si è portato da questa dimensione del suo lavoro all’interno della finzione?
Sicuramente l’importanza dell’immagine, che soprattutto al cinema diventa portatrice di significati. Per questo abbiamo lavorato con il direttore della fotografia per creare un’immagine sporca e aspra, con movimenti bruschi, autentici e allo stesso tempo agitazione. Abbiamo cercato di muovere la macchina da presa seguendo il battito del cuore di Anna, senza edulcorare. Siamo riusciti a ottenere questo effetto grazie alla fase di preparazione. Con una sceneggiatura comunque già delineata, gli attori sono stati lasciati liberi all’interno degli spazi e noi della troupe abbiamo cercato quasi di nasconderci. È importante che si reciti di pancia e non di testa per ottenere la giusta autenticità, alla quale contribuisce l’utilizzo della lingua sarda.
Il film è stato pensato per la sala?
Assolutamente sì. Io non ho nulla contro le piattaforme, ma il cinema è una forma diversa. Dà spazio all’immagine e al sonoro che hanno un’importanza di significato e non solo illustrativa. Per esempio, nella scena in cui si vede per la prima volta il cantiere, questa invasione è resa soprattutto con il sonoro. Quest’impatto è possibile in sala, non sulle piattaforme, che penso siano un medium diverso. La tv e le piattaforme sono il regno delle storie, della narrazione e dei dialoghi, mentre il cinema è un universo immersivo.
Parlando di Anna si è parlato di significato, di impegno civile. Il cinema, in un momento in cui siamo sommersi di significati e storie, può ancora farsi portatore di significato?
Sicuramente, il cinema deve esprimere una forma di ricerca espressiva e artistica, una dimensione alternativa rispetto ai contenuti delle piattaforme, dal punto di vista artistico o contenutistico. Questo perché le piattaforme richiedono un certo grado di allineamento. D’altronde i prodotti che vengono creati devono essere fruibili in 170 paesi, bisogna uniformare e cercare un gusto medio. Guardando i premi dei grandi festival, c’è ancora grande attenzione dal punto di vista di contenuto, ma questo deve essere filtrato attraverso uno sguardo e un linguaggio cinematografico, altrimenti è televisione. Il cinema può e deve osare proprio perché non vuole puntare a tutti i pubblici, può osare linguaggi e contenuti più specifici.