Non parlo di eroi – Intervista ad Asghar Farhadi

Abbiamo incontrato il regista di Un Eroe a Torino dove il Museo Nazionale del Cinema lo ha insignito del Premio Stella della Mole. Per parlare di neorealismo e di un nuovo cinema iraniano possibile

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«Io creo una situazione di crisi e ci metto i personaggi, che solamente caduta la maschera mostrano chi sono veramente». Orso d’argento a Berlino con About Elly (2009) e poi due volte premio Oscar al Miglior Film Straniero per Una separazione (2011) e Il cliente (2016), Asghar Farhadi ci ha da sempre regalato un cinema caratterizzato da impegno sociale e rigore stilistico. Influenzato dal Neorealismo, gli studi sul teatro europeo e Stanislavskij e gli esordi nel radiodramma, il regista iraniano è oggi uno dei massimi autori del panorama internazionale. Lo abbiamo incontrato a Torino, dove il Museo Nazionale del Cinema lo ha insignito del Premio Stella della Mole.

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I Suoi film raccontano storie che potremmo leggere sui giornali, allo stesso modo dei capolavori del Neorealismo. Cosa significa per Lei quel cinema italiano?
Per me il Neorealismo italiano ha vari aspetti, vari significati, non solamente uno. Ma la cosa che mi ha sempre colpito è il suo occuparsi di questioni quotidiane e non straordinarie. Quindi a differenza del cinema americano dello stesso periodo in cui c’erano grandi eroi, la forza dei personaggi del cinema italiano era sullo stesso livello delle persone comuni, per questo ciascuno vi si riconosceva. Un altro aspetto che mi ha sempre colpito sono i rapporti famigliari all’interno di un gruppo stretto, che erano tutti sentimenti che io avevo vissuto e nei confronti dei quali sentivo molta vicinanza. E poi il fatto di non mostare il mondo bianco o nero, ma vedere essere umani che sono sia buoni sia cattivi. Perciò per me è difficile dire, nei film di Fellini o De Sica, chi è il buono e chi è il cattivo. In Amarcord, ad esempio, si può fare questa distinzione? Per me queste cose sono molto importanti e secondo me a tutt’oggi nessuna cinematografia ha raggiunto le vette che ha raggiunto il cinema italiano in quel periodo. Perché fu possibile un livello di realismo in cui si racconta la realtà delle cose ma al quale segue un superamento che arriva alla vita. Quindi una cosa che dobbiamo fare noi come eredi è quella di attraversare il Neorealismo e tramite esso arrivare alla vita.

Preferisce partire da un personaggio o da una questione morale quando costruisce una trama?
La cosa più difficile quando si scrive è mettere ordine in ciò che abbiamo in testa. Quindi ci vuole del tempo per capire quale potrebbe essere l’inizio e poi proseguire su quella strada. Dobbiamo decidere se partire dai personaggi, dalle situazioni o dalla problematica. Io comincio sempre da una situazione di crisi e poi in essa inserisco i personaggi. Quando descrivo una crisi non ha importanza quali specifiche hanno i personaggi. Quindi è la situazione che mi porta a creare i caratteri dei personaggi che servono a raccontarla. Perché di solito, per cultura, le persone si somigliano un po’ tutte. Mentre nelle situazioni di crisi vengono fuori i caratteri dei personaggi. Immaginate un concerto e delle persone che stanno seguendo quel concerto: le loro reazioni sono uguali. Improvvisamente arriva la notizia che le porte sono bloccate e nella sala c’è una bomba. Quindi le reazioni che avranno le singole persone mostra la loro vera natura. Io creo una situazione di crisi e ci metto personaggi che solamente caduta la maschera mostrano chi sono veramente.

Nei suoi film le donne sono forti ma vittime di pregiudizi. Come uscire da questa trappola?
Le donne dei miei film, e questo viene fuori a livello inconscio, esprimono sempre la necessità di un cambiamento. Per esempio, in Una separazione la moglie Simin è disposta a qualunque sacrificio pur di creare un cambiamento. Il fatto che nella vita reale le donne siano sottomesse al patriarcato non è vero. Quello a cui si sta assistendo in questi giorni in Iran è un processo che è partito molto tempo fa e dimostra quanto le donne fossero già combattive e in attesa di un cambiamento. In realtà quella pressione del sistema le ha rafforzate nella raggiungimento dei loro diritti. Anche nella mia vita privata, con mia madre, mia moglie e le mie figlie, noto che nelle questioni sociali loro sono molto più determinate a trovare una soluzione. Quella della donna sottomessa è in realtà l’immagine che il regime vuole dare di sé. Nella realtà non è così e soprattutto nelle nuove generazioni.

Cosa pensa del cinema iraniano contemporaneo? Può agire positivamente?
Secondo me qualunque iniziativa culturale che sia basata su questo nuovo slogan “donna-vita-libertà” è utile. Tutto ciò che invita a ottenere la propria libertà è utile. Non solo i film, anche i cineasti in questo ultimo periodo hanno avuto un ruolo molto importante nel perseguire questa strada insieme alla gente. Ovviamente ci sono stati molti tentativi di creare delle divisioni fra cineasti e popolo e fra i cineasti stessi, ma dai risultati non sembra abbiano avuto successo.

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