PESARO 41 – Argentina, Olanda-Giappone, Vietnam-Germania: tra "discepole anarchiche" di Agresti e co-produzioni insolite…

Tre femminilità, tre sguardi crescenti, tre modi di fare cinema: "Bride of silence", "Paradise girls" e "Las mantenidas sin sueños"

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E' quasi inevitabile che nei percorsi visivi di un festival capiti di rintracciare, magari anche forzosamente, raggruppamenti ibridi di varia qualità (e umanità…), in questo caso uniti solo flebilmente dalla centralità della presenza femminile. Partiamo dal basso con Bride of silence (Cinema in Piazza), che ci trasporta in un villaggio nel Vietnam del nord di due secoli fa in cui una giovane sposa rimane irregolarmente incinta e dovrebbe essere punita con l'abbandono in una cesta del frutto del peccato sulle acque del vicino fiume e con la personale condanna a morte per affogamento. Se la parte iniziale ben illustra le credenze e le usanze religiose di questi micro-mondi, rigidamente rispettosi della gestione comunitaria da parte dei vicini agglomerati sociali, e sceglie come linea guida morale il rapporto di matrice buddista causa-effetto, la scompaginazione dei piani temporali (una didascalia indica che sono trascorsi tre anni ma non trova conferma nella mancata crescita del figlio illegittimo) non genera fertili straniamenti e sfocia in un'estetica visiva ridondante (se si esclude l'efficace virulenza visiva del temporale "divino", che salva il piccolo dall'abbandono ai flutti), in una ricerca ossessiva dell'abbandono antonioniano di corpi-oggetti dall'inquadratura fissa mediante le canoe che entrano/escono di campo solcando la muta immobilità degli specchi fluviali e in gelosie dai sanguinari intenti che si placano con la stessa facilità con la quale divampano. Insomma, non sempre "il silenzio è d'oro".

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Paradise girls (Concorso PNC) inizia ricalcando, con la prima delle tre storie che lo compongono, il trait d'union produttivo Olanda-Giappone: una giapponesina tutto pepe (ricordate l'esplosiva Ryoko Hirosue, figlia di Jean Reno in Wasabi? Ecco, qualcosa di simile) crede di avere il controllo del proprio olandesone ma questi, brutalmente, se ne ritorna nel paese dei mulini a vento. Sta alla sua intraprendenza imbarcarsi su un volo intercontinentale e fargli la classica sorpresa gradita che finisce per non rivelarsi tale. L'olandese ha una propria vita e in fondo non è disposto a condividerla con degli occhi a mandorla. Il ritmo frizzante ben disegna questa "strana coppia" che unisce Occidente e Oriente, senza togliere respiro a qualche lodevole accenno alla fugacità delle storie d'amore in trasferta, alla frequente negazione di queste nel darsi la possibilità di funzionare al di fuori di quel fortuito bozzolo ambientale che tesse un viaggio di piacere o Erasmus. Un altro spicchio narrativo è composto da una madre e il proprio figlioletto che soffre di una grave patologia cardiaca. Un cugino della madre, tempo addietro colpito dallo stesso male, regalerà i soldi (sporchi, che così si monderanno…) necessari alla costosa operazione con generosa indifferenza, ritagliando nel mare dell'egoismo contemporaneo un microscopico, quanto prezioso, atollo di umana solidarietà. Chiude il trittico Pei Pei, figlia-aiutante di un gestore di bar, "edipicamente" disinteressata a farsi una vita propria, distacco che le verrà imposto dal padre, desideroso di ritornare dall'Europa in Cina per trovarsi una nuova moglie. Attraverso piccoli tocchi (le litigate sul posto di lavoro più vicine a quelle tra marito e moglie che tra padre e figlia, l'eccitazione subito spenta di Pei Pei per un giovane ricco e carino che le presenta un'amica e il furibondo atto di vandalismo contro la parrucchiera che sforbicia vangoghianamente l'orecchio paterno) il regista Fow Pyng Hu delinea con delicatezza questo rapporto edipico "in absentia", in quanto non c'è madre della quale essere mortalmente gelosa se non l'eventuale, futura matrigna. Tre solitudini (sono assenti per la prima entrambe le figure genitoriali, per la seconda il padre e per la terza la madre) che si ritrovano nel servizio fotografico, scorza che apre e chiude il film con una gioiosa spensieratezza scevra dei problematici succhi della polpa.    

Infine Las mantenidas sin sueños (Concorso PNC), sicuramente il vertice (senza essere in assoluto un vertice) di questa triade al femminile, esaltato dai bellissimi volti/corpi di una madre di cultura universitaria che si lascia vivere dalla cocaina (Vera Fogwill, anche co-regista assieme a Martìn de Salvo) e di una figlia mossa da imprevedibili tensioni verso una maturità conoscitiva anticipata (Lucía Sníeg). Tutto intorno a loro un caleidoscopico caravanserraglio, che ritrae con modi tradizionali e atipici insieme una bizzarra Argentina d'oggi, popolata da madri psichiatre che non vogliono vedere la nipote per paura di affezionarcisi troppo, donne sfrattate con figli perennemente in vacanza dagl'impegni della vita che se la ridono bellamente della propria inettitudine, universitari spacciatori la cui silhouette e inebetitudine allaccia imprevedibili richiami al Giuseppe Battiston di Pane e tulipani, Agata e la tempesta o del recente L'uomo perfetto di Luca Lucini, donne a bagnomaria nell'agiatezza degli alimenti forniti dall'ex-marito. Vite in (in)felice sospensione tra il desiderio di comprender(si)e per raggiungere uno stato di felicità e l'imposizione sociale di elaborare un progetto di vita che temono possa costar loro la rinuncia a quella serenità tanto cara a tutti gli esseri umani. La Fogwill dirige sé stessa e un notevole gruppo d'attori in convincente stato di grazia nel perenne slittamento tra comicità di caustica e anarchica ironia e riflessione sulle esistenze periferiche di tanti connazionali argentini, traslazioni sollevate con l'arma di una leggerezza più aerea di quella del cinema di Agresti (per il quale ha recitato in L'ultimo cinema del mondo), per la quale basterebbe citare la scena iniziale di riuscità ibridità drammatico-comica della piccola Lucía Sníeg, che scambia per zucchero la cocaina lasciata incustudita in casa e sputa subito dopo nel lavandino la tazza di latte anomalo. Un cinema in grado anche di farsi apprezzare per riusciti momenti puramente visivi (Lucía Sníeg seduta di profilo sul davanzale della finestra che fa ruotare vorticosamente un mappamondo avvolta in una penombra lunare di splendidi valori chiaroscurali) e affettivi (la camminata, inquadrata da tergo, ancora di Lucía con le mutadine colorate dal sangue delle prime mestruazioni che cammina verso l'orizzonte, mano nella mano del padre fannullone, con i suoi stessi piedi a papera).

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#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

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