PIZZO CALABRO 2004 – Festival Internazionale dei Circoli del Cinema

Alla sesta edizione, si cambia location: dal capoluogo calabrese al piccolo centro balneare della costa tirrenica. Delegati di tutto il mondo hanno "invaso" la piazzetta del tartufo gelato, mentre in sala il cinema è ancora un oggetto misterioso e avvolgente, magico venditore di luce sprezzante del pensiero unico.

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A Pizzo Calabro si scopre qualcosa che fino a quando non ne accerti l'evidenza sul campo, resta pura teoria. L'unificazione tra Stati, culture, etnie, non è l'effetto della globalizzazione. È vero il contrario. Il miglior modo per difendersi dagli effetti catastrofici del pensiero unico probabilmente è tendere a sistemi alleati, a sguardi comuni. I delegati di tutto il mondo, che giungono come rappresentanti dei cineclub di realtà lontane, sembrano mutanti della specie umana. Troppo innamorati del cinema per essere figli di questi tempi… morti (avrei preferito bastardi, ma il significato insito di mescolanza non mi sembrava appropriato). In ogni edizione le scoperte cinematografiche naturalmente non mancano (a mancare sono i fondi sempre più!!!). Si comincia dalla fine. La terra è fatta così di Gianni Amelio (attuale presidente della FICC) e Le donne di San Giuliano di Salvatore Maira (proiezione ad inviti), terremoti visibili che coprono di macerie gli squarci lasciati dall'incuria, dal dissesto ambientale, dalla barbarie socio-politica.  I detriti si smuovono da un posto per riporli più in là, sempre troppo vicini. Pensare globalmente e agire localmente è l'idea propulsiva che il festival ha adottato per il suo prezioso giocattolo. Ma l'Irpinia "ballerina" di Amelio e la scuola abbattuta di Maira sono il riflesso di ritorno: agire localmente e pensare… poco e niente.


La Sezione Internazionale ha dedicato quest'anno una "personale" a Yasmine Kabir, regista indipendente, nata in Bangladesh. Ha imparato a fare film negli Stati Uniti, dove è vissuta per tredici anni. I suoi lavori sono tutti rivolti alla gente emarginata nel suo Paese, soggetta all'indifferenza generale, governativa e persino delle NGO per le proprie condizioni di vita. Bellissimo è Shadinota (Una Certa Liberazione), storia di una donna impazzita durante la guerra di liberazione del Bangladesh del 1971, mentre vedeva la sua famiglia che per intero veniva uccisa dai Razakars, i collaboratori delle forze occupanti. Imprigionata e violentata dai militari è stata liberata dopo diversi mesi. Oggi la donna continua a vagare per le strade della sua città in cerca di quello che ha perso, senza aver paura delle autorità. Nella sua pazzia ha trovato una strategia di sopravvivenza. Documentario "moderno", nervoso, arrabbiato, toccante, sfuggente.

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Il "trip" prosegue sulla Route 181, di Eyal Sivan e Michel Khleifi. Quattro capitoli per 270 minuti di road-movie su una strada che non esiste. È il percorso virtuale tracciato dai due autori su una carta stradale seguendo la frontiera della Risoluzione n. 181 adottata dalle Nazioni Unite nel 1947 (casualmente è anche l'anno di nascita della FICC), che prevedeva la divisione della Palestina in due Stati: il 56% di essa era attribuita alla minoranza ebrea e il 43% alla maggioranza araba. Opera di "riguardo" sul viaggio iniziatico alla ricerca di un dialogo possibile. Il luogo di demarcazione inesistente è percorso nella casualità degli incontri, nello svelamento di visioni complementari.


Il direttore Paolo Minuto una sera mi ha confessato: "Noi preferiamo battere ogni anno sentieri selvaggi". A quelle parole, ho pensato di scappare. Poi (in colpevole ritardo) ho capito che si riferiva a quei passaggi sterrati, sconnessi e polverosi dove il cinema stenta ad attecchire, ma quando lo fa è in ogni caso una festa prima, dopo e durante.        


   


  


 

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