PROFILI – Le "rondes" di Max Ophuls

Celebrato a Udine e Pordenone fino al 20 febbraio 2002 ne "Lo sguardo dei maestri", Ophuls ha mescolato cultura alta e feuilletton, letteratura e circo, ironia e passione, tra il piacere della narrazione e una personalissima raffinatezza espressiva

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Artista raffinato ed appassionato, amato da Kubrick ed elogiato dai “Cahiers du Cinema”, Max Ophuls (nato Oppenheimer) raramente viene annoverato tra gli Autori. Penalizzanti in questo senso, se così si può dire, sono forse stati due dei suoi principali tratti distintivi: la rappresentazione del melodramma e l’amore per lo spettacolo popolare e “basso”. In realtà, di entrambi questi soggetti Ophuls seppe dare un’immagine insieme riflessiva e sofisticata, uno sguardo disincantato ma anche innamorato. I film che più lo hanno reso celebre a noi sono per la verità tutti di provenienza “alta”: Snitzler, Maupassant e Zweig sono solo alcuni degli autori teatrali e letterari da cui Ophuls, già regista teatrale ed abituato a portare in scena Ibsen e Molière, ha attinto. Ma nonostante questo, era lui stesso a sentenziare che i veri maestri dello spettacolo erano proprio quelli più misconosciuti (i clown, gli acrobati, i trapezisti), ed a lasciarlo intendere in tanti suoi film, prima di celebrarli nel grande circo di “Lola Montés” (1955), sua ultima fatica.
Tedesco di religione ebraica, internazionale per vocazione e per necessità, Ophuls lavora intensamente tra gli anni ‘30 ed i ’50, dividendosi tra la Germania (dove l’UFA produce il suo primo lungometraggio, “Amanti folli” del 1932), Hollywood e la Francia, con piccole incursioni in Olanda ed Italia, fino a stabilirsi di nuovo e per sempre Francia dai primi anni ‘50.
È nel periodo Hollywoodiano che nasce uno dei film per cui Ophuls viene maggiormente ricordato, “Lettera da una sconosciuta” (1949). Dramma dell’amore e sottile ritratto dell’ossessione femminile intesa come slancio vitale, “Lettera da una sconosciuta” è tutto affidato alla “bionda mansuetudine” di Joan Fontaine (come la definì Castello sulla rivista “Cinema” del 1950) ed alla ricostruzione di una Vienna romantica e lucente, brillante pur nel bianco e nero, una delle migliori scenografie hollywoodiane dell’epoca, e che servì oltretutto a confermare la fama di Ophuls “autore viennese” (benché la capitale austriaca lo avesse in realtà ospitato solo per pochi mesi in gioventù). Ma in “Lettera da una sconosciuta” compaiono altri elementi cari al regista, in particolare l’amore per la musica, che fa da fondamentale contrappunto a questa pellicola (come a tante altre), e l’utilizzo della voce narrante fuoricampo: in questo caso quella di Lisa, la sconosciuta della lettera, che “legge” la storia fino alla fine del film, pur essendo morta fin dal suo inizio. La presenza di una voce narrante, o meglio ancora di un elemento (sovra)umano, allo stesso tempo interno ed esterno alla storia, lo ritroveremo in altri dei suoi film più celebri, ed in particolare nello splendido “La ronde” (1950), dove un elegantissimo ed ironico “meneur de jeu”, o “raisonneur”, interpretato da Anton Waalbrock ci conduce, canticchiando e trasformandosi di volta in volta in portiere, maggiordomo o passante, nel girotondo erotico di una serie di incantevoli, ma umanissimi, personaggi viennesi, usciti direttamente da una pièce di Athur Snitzler.

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Ne “La ronde” si esplicita un altro degli stilemi fondamentali del cinema ophulsiano, quello dello spettacolo nello spettacolo. In questo caso si tratta proprio di cinema che rivela sé stesso, con il “meneur de jeu” che, oltre ad impersonare il Destino ed il narratore super partes, impersona anche il “deus ex machina” (tecnico) del film: esemplare la scena in cui Waalbrock, sempre impeccabile nel suo frac, taglia un pezzo di pellicola, un pezzo quindi della storia che sta narrando (forse qualche riferimento alla censura, data la materia osé del film?). E memorabile è anche la scena in cui Waalbrock aggiusta la giostra incagliatasi in concomitanza con la defaillance amorosa di un personaggio (il protagonista dell’episodio “lo studente e la donna sposata”), in modo che la ronde erotica dei personaggi possa continuare. Momento questo che resta non solo per l’ironia della situazione, ma anche perché di nuovo porta l’attenzione dello spettatore sulla giostra, ovvero su quella forma di intrattenimento “basso” che però così tanto sembra essere vicino alla vita (e non dimentichiamo che è sempre all’interno di una rudimentale giostra che si era consumato l’amore iper-romantico tra i due protagonisti di “Lettera da una sconosciuta”). Funzionali e raffinati anche i movimenti di macchina de “La ronde”, che esprimono, assieme a quelli di attori e scene, non solo il moto perpetuo e la perfetta circolarità della giostra (“regista motorizzato” venne definito Ophuls), ma anche un desiderio di “non invadere” la storia, riprendendo i protagonisti da angolature lontane, da finestre, e spessissimo con degli oggetti più o meno grandi che si frappongono tra la camera ed i loro movimenti. Tanto la circolarità danzante delle riprese, quanto la macchina “che spia” attraverso dei pertugi, li ritroveremo anche nei film successivi. Due anni dopo “La ronde”, è di nuovo il turno di un adattamento letterario: con “Le plaisir”, Ophuls disegna un affresco della Francia di fine Ottocento tratto da tre racconti di Maupassant. È di nuovo una voce fuoricampo (quella di Jean Servais) che ci racconta l’incontro del piacere con l’amore, la virtù e la morte. Bellissimo l’episodio “la maison Tellier”, dove un allegro gruppo di prostitute, solitamente relegate in una bella casa al centro (d’equilibrio) di una cittadina normanna, scompaiono per un week-end, per assistere alla comunione della nipotina della loro Maitresse. Se gli uomini della città si troveranno sconvolti dalla brevissima chiusura della Maison Tellier, altrettanto sconvolte saranno le cocottes, poste di fronte al tranquillo menage di una famiglia contadina, e messe a confronto con l’innocenza di una bambina. Finiranno con l’inondare di lacrime la chiesa dove si celebra la comunione, trascinando con loro tutto il paese, e trascinandolo anche con la loro smaliziata vitalità. Alla fine del week-end niente sarà cambiato, ma le scene delle prostitute in treno alle prese con un venditore di giarrettiere, o del loro scendere ad una ad una da un carro aiutate da un solerte contadino, e poi della loro contraddittoria bucolicità mentre raccolgono fiori di campo, sono una festa per gli occhi pur senza la presenza del colore.Ed il colore esploderà con “Lola Montés”, insieme alla celebrazione del “fenomeno da baraccone” e dello spettacolo nello spettacolo. Come in altri svolgimenti ophulsiani, la storia di Lola Montés, la contessa di Lansfeld famosa per i suoi amori ed i suoi scandali, è narrata in una serie di flashback, e rievocata come sempre da un personaggio esterno, questa volta non esterno al film ma piuttosto al passato di Lola. È il direttore del circo, che sembra sfruttare cinicamente il passato di Lola, e Lola stessa (la farà gettare senza rete pur sapendola malata), ma che in realtà è innamorato di lei. Ed in questa ambivalenza possiamo situare anche il rapporto del regista con il circo e la sua forma di spettacolo, dove tutto il kitch è mostrato con espressionismo e riprese stranianti, ma che, pur nel suo essere grottesco, mantiene una peculiare autenticità ed una fortissima scintilla vitale. Spettacolo grandioso (una co-produzione franco tedesca costata circa un milione di marchi), “Lola Montés” chiude la carriera di Ophuls, nella quale si sono mescolati cultura alta e feuilletton, letteratura e circo, ironia e passione, il tutto incapsulato in un gioco, una “ronde” per l’appunto, dove il piacere del vero e della narrazione non è mai disgiunto da una grande raffinatezza e da una personalissima sapienza espressiva.

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