Quello che non sai di me. Incontro con Rolando Colla

Sentieri Selvaggi intervista Rolando Colla, regista e sceneggiatore svizzero di Quello che non sai di me, intensa storia d’amore sulla migrazione disponibile su The Film Club

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Quello che non sai di me, l’ultimo film del cineasta e sceneggiatore svizzero Rolando Colla (Oltre il confine, 7 giorni), fa parte da giugno scorso della proposta della piattaforma vod The Film Club. Abbiamo incontrato il regista.

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Quello che non sai di me racconta il percorso umano di un bracciante di Rosarno che si lascia alle spalle quel mondo per cercare una nuova vita in Svizzera. Come cerchi le tue storie e i tuoi personaggi? 

L’immigrazione è un tema che ha sempre fatto parte della mia famiglia, essendo io figlio di genitori che hanno lasciato l’Italia per venire in Svizzera a lavorare. Mio padre, italiano, è venuto in Svizzera negli anni ’50. Era un fabbro, una persona molto semplice, separato da mia madre da quando io e mio fratello avevamo 4 anni.

Questi africani quindi non mi sono estranei, conosco bene il desiderio di cercare altrove una vita migliore e le difficoltà che si incontrano, perché poi i sogni sono molto più belli delle realtà che si incontrano.
In queste storie si rispecchia poi la società: il modo in cui si accolgono queste persone, qui in Svizzera o altrove, racconta qualcosa sulla civiltà e su come un Paese è in grado di essere umano o meno. Temi che mi interessano profondamente…

Che futuro vedi per questo tipo di cinema in questo momento di crisi dell’industria?

Io penso che storie così possano essere raccontate con mezzi molto semplici, come ho fatto io che avevo una troupe di sette persone. Questo perché c’è una necessità di raccontare queste storie e non la ricerca di un successo commerciale. Questo è un cinema d’autore di grande semplicità, al servizio della storia che racconta e non tanto dell’effetto che vuole avere.
Io ho fatto questo film perché conoscevo la storia reale di questo africano, avevo in mano tutto il dossier del suo avvocato, che mi ha aiutato a ricevere la liberatoria di modo che io potessi avere questi documenti come base per la mia sceneggiatura. La storia è costruita bene perché nutrita dalla realtà. Avevo il desiderio di raccontarla, e a differenza di altri miei film, di respiro più ampio, girati con una troupe più ampia e un budget maggiore, sentivo che andava raccontata con più semplicità.

Quali sono le tue ispirazioni cinematografiche?

Con mio padre si andava spesso al cinema, quasi ogni domenica, a vedere i film di Sergio Leone o di Bud Spencer e Terence Hill. Io penso proprio di aver iniziato a fare cinema per raggiungere persone come mio padre, per essere in contatto con mio padre attraverso il cinema.
Le mie ispirazioni sono soprattutto John Cassavetes, il cui cinema purtroppo oggi non conosce quasi più nessuno, e il polacco Krzysztof Kieślowski.
Ma anche nel cinema attuale ci sono belle cose, ad esempio  mi piacque molto Respiro di Emanuele Crialese.
Mi piace quindi il cinema quando cerca di catturare il pubblico per qualcosa che non sia confezionato, ma che si crea mentre stai girando.
Sono molto vicino al documentario ultimamente, alla riduzione del linguaggio cinematografico, senza l’intenzione di essere elegante o di cercare di fare il cinema alla grande, ma cercando di cogliere il momento con la macchina da presa.

E in questo processo come entra in ballo l’apporto degli attori?

Per quanto riguarda gli attori, metto spesso insieme attori professionisti e non professionisti. Con loro faccio molte prove per dare sicurezza, per chiarire i conflitti, per creare rapporti. Alla fine mi interessa che l’attore o l’attrice abbiano autonomia per il personaggio, che lo interpretino senza giudicarlo. In questo modo non c’è poi molto bisogno di dirigere quando si va a girare. Questo fa decisamente parte del mio modo di lavorare.

Linda Olsansky (la protagonista del film) ad esempio l’ho conosciuta quando ho girato con lei un corto politicamente impegnato, e mi è piaciuta molto. Poi abbiamo fatto insieme 7 Giorni, un film per la TV che si chiamava Io sono Gaetano e ora questo ultimo lungometraggio,

La considero un’attrice molto vera, capace di vivere il personaggio senza giudicarlo, capace di lasciare indietro i suoi valori per fare spazio a quelli del personaggio, Nel mio ultimo film il suo personaggio vive un amore incondizionato, malgrado la sofferenza di lui lo porti spesso ad essere assente.
Ecco, questo è possibile solo se un’attrice è in grado di entrare completamente nel personaggio senza più pensare a quello che farebbe lei al suo posto.
Soprattutto, lei ha la capacità notevole di dimenticare la macchina da presa.
Molti possono sentirsi a disagio davanti all’obiettivo, perché deve continuamente fare finta di non sapere come andrà a finire la scena. Per questi motivi sono molto legato a lei.

Hai scritto qualcosa di nuovo durante questo periodo di stop forzato?

Dalle mie parti dicono che non porti fortuna parlare in un progetto che sta ancora nascendo. Forse è stupido, ma forse c’è anche qualcosa di vero, perché bisogna uscire con i progetti solo quando sono pronti.
Ovviamente sì, ho scritto in questo periodo. Ho portato avanti un trattamento che ha trovato i finanziamenti, ho portato avanti anche una seconda storia che voglio girare con Linda. Però parlare di questi progetti mi imbarazza perché è come aprire un discorso che non si sa poi verrà chiuso.

Posso dire che sto finendo un documentario per il cinema su un personaggio molto interessante, che verrà presentato a Zurigo in prima mondiale. Il titolo è W – quello che rimane della bugia.
Ci ho lavorato per molto tempo, e in particolare il montaggio mi ha impegnato per quasi 15 mesi. Diciamo che ho vissuto la quarantena con molta serenità e concentrazione.

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