Resta con Me, di Baltasar Kormákur

Il regista islandese traspone sul grande schermo l’odissea oceanica di Tami Oldham Ashcraft in un disaster-movie sentimentale. Se omnia vincit amor, non tutto però convince pienamente

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Quando il disaster-movie, declinato nella sua variante survivalista, si dispiega lungo i tormentosi e sdrucciolevoli sentieri del sentimento e del melodramma, per giunta in una mise en scène drammaturgica e narrativa affidata interamente alle espressioni, al volto e al corpo di un unico protagonista, occorre che ci sia un equilibrio perfetto tra i vari ingredienti della miscela filmica, dalla regia alla sceneggiatura, dalla fotografia al commento sonoro, dal comparto tecnico al doppiaggio, per fare in modo che una pellicola non si riduca a facile vettore di lacrime e slogan romantici o che non lasci impressi nella mente dello spettatore soltanto macerie – emotive e non – e relitti sconvolti dalla catastrofe. La potenza della natura e la tracotanza del sentimento umano, in un perenne stato di lotta tra leggi fisiche, effetti deterministici, prese di coscienza, atti di fede e slanci spirituali da spleen et idéal, rischiano di deflagrare ed annullarsi a vicenda, confinando senso, reazioni ed empatia nel campo ristretto di una suspension of disbelief che non va oltre il running time del prodotto cinematografico, senza lasciare traccia tangibile di ciò che si è visto, complici la ripetitività, lo schematismo e la cristallizzazione di un soggetto antico quanto l’uomo e ampiamente sfruttato, diciamo pure shakerato, dalla settima arte, almeno a partire dagli anni Sessanta. Ma può anche accadere che il prodigioso mix succitato non si realizzi affatto, riuscendo tuttavia a toccare qualche corda, a catturare la giusta dose di attenzione, a spronare lo spettatore verso un soddisfacente degree of identification: ciò grazie alla verità della storia, alla sua storicità comprovata (e non soltanto evocata, come tanto spesso avviene al cinema), al racconto che si fa cronaca, non importa quanto spettacolarizzata o meno.

 

Ciak islandese

 

Quattordicesimo lungometraggio del regista, attore, sceneggiatore e produttore islandese Baltasar Kormákur (101 Reykjavík, 2000; Una Tragica Scelta, 2010; Contraband, 2012; Cani Sciolti, 2013; The Oath – Il Giuramento, 2016) – nato a Reykjavík nel 1966 e laureatosi all’Accademia Nazionale di Belle Arti nel 1990, firmando quasi subito un contratto con il Teatro Nazionale Islandese, con cui ha collaborato fino al 1997 – Resta con Me (Adrift) ha avuto la sua release date negli Stati Uniti il 1° giugno 2018 ed è stato presentato in anteprima italiana al Ciné – Giornate Estive di Cinema di Riccione (2-5 luglio 2018), passando successivamente al Giffoni Film Festival 2018 il 23 luglio scorso, con una proiezione accompagnata dalla conferenza stampa del protagonista, Sam Claflin. Racconta il regista: Non avevo mai girato un film con una donna come protagonista e mi è piaciuta l’idea di una giovane donna, molto forte, come eroina della storia. E ho pensato che Shailene fosse perfetta per il ruolo. Anche la storia d’amore mi sembrava molto potente. Speravo di dare vita ad un prodotto drammatico e al contempo romantico, e questo film esplora l’intrinseca forza del vero amore in modo davvero unico”. La pellicola conferma l’interesse del cineasta islandese per le situazioni estreme e l’incontro-scontro ravvicinato con la forza ineffabile della natura, in una visione che sembra echeggiare certa letteratura lucreziana e leopardiana filtrata attraverso uno spirito avventuroso à la Hemingway: senza dimenticare la burrascosa tormenta della serie televisiva islandese Trapped (due stagioni, 2015-2018), se in The Deep del 2012 assistevamo alla messinscena di un caso realmente avvenuto in Islanda nel 1984 con il drammatico naufragio di un peschereccio nelle gelide acque dell’isola di Vestman, esperienza dalla quale si salvò solo un uomo che riuscì a sopravvivere in condizioni impossibili con temperature disumane, il più recente Everest (2015), traendo spunto dal saggio Aria Sottile (1997) di Jon Krakauer, raccontava la fallimentare spedizione sulla “cima del mondo” avvenuta tra il 10 e l’11 maggio 1996, che portò alla morte di otto alpinisti colti da una tempesta durante il tentativo di ascesa.

La trama

Tahiti, 1983. La 23enne Tami (Shailene Woodley), californiana di San Diego, dopo aver lasciato la famiglia e allestito una scuola di surf con un’amica, si trasferisce nell’isola della Polinesia Francese e sbarca il lunario trovando un impiego presso il porticciolo turistico. Qui incontra il 34enne Richard (Sam Claflin), britannico, appassionato di navigazione in solitaria. I due giovani avvertono subito una forte affinità ed attrazione reciproca, iniziando a frequentarsi quotidianamente. Quando Richard riceve da un conoscente la proposta di traghettare il lussuoso yacht Hazana attraverso il Pacifico fino a San Diego, ricevendo in cambio 10.000 $ e un biglietto di prima classe per il ritorno, il giovane, preso dall’entusiasmo, chiede a Tami di accompagnarlo nell’impresa. Dopo un’iniziale titubanza dovuta al fatto che per lei sarebbe un ritorno a casa, Tami si lascia vincere da quel desiderio di avventura e di vita marinaresca che l’ha sempre affascinata. I due, con poche provviste e lo stretto necessario, salpano per la California. Ma tra di loro e la meta finale c’è lo sconfinato Pacifico, oltre 6.500 chilometri di acqua salata e, soprattutto, la furia di un uragano che rischia di trasformare il sogno in incubo.

La storia vera

La sceneggiatura si avvale del lavoro a sei mani dei fratelli Aaron e Jordan Kandell e di David Branson Smith e trae spunto dal libro Red Sky in Mourning: A True Story of Love, Loss and Survival at Sea, edito per la prima volta nel 1998 a quindici anni di distanza dai fatti, scritto dalla vera protagonista del dramma raccontato nel film, Tami Oldham Ashcraft, in collaborazione con la scrittrice e fotografa Susea McGearhart. Nomi, contesto temporale e geografico sono fedelmente rispettati dalla pellicola. Tami e Richard Sharp si occupavano insieme già da un anno e mezzo di imbarcazioni, consegnandole a destinazione o riparandole, e avevano accumulato l’esperienza di 50.000 miglia di navigazione. L’Hazana era uno yacht a vela di tredici metri e mezzo e i due avevano accettato di trasferirlo a San Diego per diecimila dollari e i biglietti aerei necessari per riprendere la loro fuga d’amore, con la barca che si era costruito Richard. Tami e Richard salparono dal porto di Papeete, sull’isola di Tahiti. Ventitré giorni dopo la partenza l’orizzonte era diventato grigio e il vento aveva cominciato a soffiare impetuoso. Avevano cercato di sfuggire a Raymond, ma l’uragano aveva mutato più volte il percorso, quasi l’inseguisse. Quando successe, l’anemometro segnava raffiche di 140 nodi, il barometro era terribilmente basso, al di sotto dei 710 millimetri. Tami era sottocoperta, Richard era fuori, al timone, fissato con le cinture di sicurezza alle lifeline, i cavi che scorrevano lungo i lati della barca. Quando Tami riprese conoscenza dopo 27 ore era sola sull’Hazana e cominciò la sua battaglia per sopravvivere. Ci riuscirà approdando sulla spiaggia di Hilo, nelle Hawaii, dopo essere stata per 41 giorni alla deriva nel Pacifico, la barca semidistrutta, lei provata da un trauma cranico e da una copiosa emorragia. Oggi Tami Oldham Ashcraft vive a Friday Harbor, sull’isola di San Juan, nello Stato di Washington. È un’imprenditrice, è sposata, madre di due figlie e continua ad andare in barca a vela. Raccontano i fratelli Kandell: “Siamo nati e cresciuti alle Hawaii e il mare è stato parte integrante delle nostre esistenze. Affrontare le sfide che l’oceano pone tutti i giorni, soprattutto in condizioni estreme, aiuta a capire e scoprire che tipo di persona si è. Quando abbiamo trovato la storia di Tami eravamo alle prese con la stesura di una sceneggiatura incentrata sulla sopravvivenza in mare aperto. Siamo rimasti tutta la notte svegli a leggere il libro, da cui non riuscivamo a staccarci: nessuna storia inventata poteva essere così emozionante e potente. Già il giorno dopo abbiamo contattato Tami per ascoltare la sua odissea dalla sua voce e coinvolgerla nel nostro progetto. La sua storia di giovane donna che sente il richiamo del mare e parte all’avventura ha finito inevitabilmente per fornirci spunti anche per Oceania, cartoon Disney di cui abbiamo scritto la sceneggiatura. La prima persona a cui abbiamo pensato per il ruolo di Tami è stata la nostra amica Shailene Woodley. L’abbiamo conosciuta alle Hawaii quando, poco più che ragazzina, ha girato Paradiso Amaro. Ci siamo incontrati allora sul set e siamo diventati amici. L’abbiamo poi rivista in azione anche sul set di Colpa delle Stelle, dove ha dimostrato di quanta forza e personalità sia dotata. Ha, inoltre, molti punti in comune con la vera Tami: forza, spirito libero, volontà, tutti elementi che non le fanno mai perdere di vista il proprio obiettivo e la propria strada”. Le riprese del film, cominciate nel luglio 2017, si sono tenute alle Isole Fiji per cinque settimane molto intense, nel corso delle quali cast e troupe hanno dovuto navigare per due ore, svegliandosi all’alba, per raggiungere il mare aperto, e poi per tornare negli hotel. Molte persone hanno avuto seri problemi di mal di mare durante le riprese, come ha riferito Shailene Woodley.

Dell’amore e di altri demoni

Partiamo subito da una constatazione: il titolo italiano del film accentua la componente sentimentale e melodrammatica della vicenda, a differenza di quello scelto per il mercato internazionale, Adrift, che meglio inquadra i risvolti catastrofici e “marinareschi” della storia. Si può capire l’esigenza di non confondere il film di Kormákur con l’omonima pellicola del 2006, distribuita in Italia con il titolo di Alla Deriva – Adrift, sequel di Open Water (2003), anch’esso basato su fatti realmente accaduti. Tuttavia, il titolo originale si sarebbe attagliato meglio allo spirito della narrazione e avrebbe creato un suggestivo parallelismo emotivo tra la realtà fisica di uno yacht alla deriva e quella spirituale di due giovani inquieti e avventurosi, alla deriva, appunto, con alle spalle una travagliata vicenda familiare – appena accennata nella pellicola – e animati da un irresistibile impulso alla sfida e a “varcare l’infinito orizzonte”. Perché è proprio questo a costituire, insieme alla cronaca, più o meno verosimile, del drammatico episodio reale, l’aspetto più affascinante e potenzialmente fecondo dello script e della trasposizione cinematografica: la singolare similitudine tra due forze che non si lasciano irretire da convenzioni e barriere, da comode certezze e da possenti dighe, quelle dello spirito umano e della natura, potremmo dire della ὕβϱις e della φύσις. La solitudine dell’essere umano di fronte alla immensità della natura e dei suoi molteplici aspetti, la sua innata einsamkeit di heideggeriana memoria, hanno alimentato per secoli la poesia e la letteratura e sono inevitabilmente approdate al cinema, che ne ha di volta in volta privilegiato la componente esistenziale e filosofica tesa alla ricerca o all’annullamento di sé, alla riflessione, alla incomunicabilità oppure il risvolto più squisitamente dionisiaco della distruzione, della furia degli elementi, della catastrofe o ancora, infine, la dimensione della sfida e del superamento dei propri limiti. Senza andare troppo lontano, basti ricordare Le Grand Bleu (1988), La Tempesta Perfetta (2000), Vita di Pi (2012), All is Lost – Tutto è Perduto (2013) e Heart of the Sea – Le Origini di Moby Dick (2015). L’intenzione di Kormákur è ancora diversa: raccontare la potenza del più “saccheggiato” ed abusato dei sentimenti umani, l’amore, attraverso una vicenda drammatica di sopravvivenza. Ed ecco, allora, che è la realtà, nella sua imperscrutabile originalità ed autenticità che si presta ad infinite occasioni di riproducibilità, a cementare il tutto e a rendere fruibile, godibile e, a tratti, avvincente una pellicola che, se non avesse attinto ad una storia vera, si sarebbe rivelata estremamente fragile e inefficace, trita e retorica. In questo caso, è la storia vera – rocambolesca, terribile, rivelatrice, salvifica – a “farsi cinema”, a sceneggiarsi e ad imprimersi negli occhi e nei cuori; è la potenza di un’esperienza realmente vissuta a conferire dignità e pathos ad un racconto filmato per lo schermo. Kormákur ci mette del suo, indubbiamente, soprattutto nella qualità delle riprese subacquee e nella spettacolarità ad alto tasso adrenalinico delle scene dell’uragano che si abbatte sull’imbarcazione, ma opta per un costante ricorso al montaggio alternato – in cui il “presente” drammatico della lotta per la sopravvivenza si sovrappone al “passato”, già divenuto elegia, dell’incontro e dei sogni avventurosi di due giovani innamorati – che, se si rivela funzionale a smorzare la tensione e ad innervare nella struttura del racconto le sfumature sentimentali, autentico fulcro della pellicola, non arricchisce e approfondisce il background familiare dei due protagonisti, come già detto ricco di spunti interessanti, e non aiuta neppure ad abbandonarsi totalmente ai deliri, alle angosce e alla strenua forza d’animo della protagonista. Attraverso la figura di Tami Oldham, tuttavia, il regista islandese rivitalizza il genere del survival-movie con un’eroina femminile che non ha bisogno di muscoli, curve sinuose e canottiere sporche per fare breccia, ma che trova nel suo spirito libero ed inquieto e nell’amore incondizionato per il suo compagno il nutrimento cui attingere nei momenti di disperazione. Una donna, soprattutto, che esiste davvero, che quello spirito lo possiede ancora intatto, che quell’amore lo ha veramente provato, assaporato, percepito con il corpo e con la mente. È quindi l’amore lo strumento della rinascita e il medium dell’emancipazione, sembrerebbe suggerire Kormákur. Lo script, per quanto inserito sia nella “hit list” che nella “black list” 2016, non sembra cogliere appieno le nuance di una storia dall’enorme potenziale narrativo e propende per una risoluzione piuttosto semplificata dei personaggi. Suggestiva la fotografia di Robert Richardson, alquanto “naturale” nel rendere sia i colori accesi e le atmosfere esotiche sia i toni plumbei del cielo e delle acque scossi dall’uragano, estremamente funzionali le scenografie create da Heimir Sverrisson. Prescindendo dall’interpretazione di Sam Claflin – noto soprattutto per il ruolo di Finnick Odair in Hunger Games – La Ragazza di Fuoco (2013) e Hunger Games – Il Canto della Rivolta (2014-2015), e per quello di Lord William in Biancaneve e il Cacciatore (2012) e Il Cacciatore e la Regina di Ghiaccio (2016) – tutto sommato marginale ai fini della narrazione (proprio come presenza scenica, non certo come guida spirituale) e pure un tantino blanda, tutto il peso del film è sulle spalle di Shailene Woodley. L’attrice statunitense, 28 anni il prossimo 15 novembre, acclamata dalla critica per Paradiso Amaro (2011) e Colpa delle Stelle (2014) e nota al grande pubblico per la trilogia di film tratti dai romanzi di Veronica Roth (Divergent, 2014; Insurgent, 2015; Allegiant, 2016) e per il ruolo di Jane Chapman nella serie televisiva Big Little Lies (è in corso di produzione la seconda stagione), se la cava discretamente bene, con un’interpretazione sufficientemente intensa ma sempre misurata. Nell’epilogo dolceamaro, le note di I Hope that I don’t Fall in Love with You di Tom Waits, nella versione della cantante islandese Emiliana Torrini, ci ricordano quello che Resta con Me è nella sua sostanza – un film sull’amore – e quello che avrebbe potuto essere e non è stato: un film indimenticabile.

Titolo Originale: Adrift

Regia: Baltasar Kormákur

Origine: USA, 2018

Interpreti: Shailene Woodley, Sam Claflin, Jeffrey Thomas, Elizabeth Hawthorne

Durata: 96’

Distribuzione: 01 Distribution

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