RIFF23 – White Paradise. Incontro col regista Guillaume Renusson

Primo lungometraggio del giovane regista Guillaume Renusson, è in concorso al Rome Independent Film Festival. Ecco l’incontro del regista con la stampa.

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Samuel, dopo l’incidente in auto in cui ha perso la moglie, si isola nella sua baita nel cuore delle Alpi italiane. Una notte, una giovane donna intrappolata dalla neve si rifugia nella sua casa. È afghana e vuole attraversare la montagna per raggiungere la Francia. Non sospetta quanto ostili saranno gli uomini che dovrà affrontare. White Paradise (Les Survivants), primo lungometraggio del giovane regista Guillaume Renusson è al Rome Independent Film Festival. Ecco l’incontro del regista con la stampa.

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Ci può spiegare la genesi della storia, quando ha cominciato a scriverla?

Ho pensato di realizzare questo film quando ero ancora studente, nel mio appartamento. La sceneggiatura è nata poco tempo dopo, quando ho incrociato, durante alcuni viaggi, molti rifugiati. E così, quando ho iniziato a scrivere questa storia, mi sono reso conto di voler esplorare molti aspetti che mi circondavano. Credo che esista un collegamento parallelo tra il dolore, la dinamica del dolore, e ciò che sentiamo quando perdiamo qualcuno. Anche per i rifugiati è così: abbondonare la loro terra di origine, soprattutto quando sono costretti a lasciare il loro Paese. Allora mi sono chiesto: come può un personaggio con una depressione come Samuel, che vuole isolarsi, aiutare qualcuno?
Deve provare anche lui, quello che prova la persona che ha davanti.

La legge della montagna è come la legge dei marinai…

Esattamente, perché sono guidati dallo stesso sentimento, ovvero quello di salvare, di essere di aiuto a qualcun altro. Non sempre, perché è comunque difficile, non c’è indifferenza o xenofobia. Sono tre sensazioni molto diverse che ho sentito quando sono andato al confine per la prima volta.

Quando ha iniziato a girare le prime scene?

Poco prima dell’inizio della pandemia, nel 2020. Lo giravamo da solo una settimana. Un momento che non dimenticherò mai: mi sono trovato di fronte a 40 persone e abbiamo ragionato insieme. Dovevamo tornare a casa dalle nostre famiglie, ma non era finita, era un momento difficile ma sin da subito eravamo certi che non ci avrebbe fermato. Quella che si è creata non è una troupe ma una vera famiglia, molti tecnici sono diventati miei amici, mi chiamavano per sapere quando avremmo finito il film perché era veramente importante arrivare alla fine delle riprese, sentivano il film come loro. Ci siamo fermati a marzo 2020 e abbiamo ricominciato a gennaio 2021 e quasi tutto era uguale.

Che sensazioni ha provato quando è arrivato sulla montagna, per la prima volta?

Quando sono andato al confine, e sono arrivato sulla montagna, ho provato qualcosa che non so spiegare con esattezza. È come se fossi diventato anch’io un migrante, qualcuno che, sperduto e al freddo, cerca aiuto. Ci son voluto andare di notte, con la luna e mi è sembrato di vedere molti fantasmi che erano simili a ombre nella neve. Questa è stata un’immagine visiva che mi ha aiutato per la realizzazione del film. Inizialmente pensavo di fare un film sul dolore per la migrazione ma poi a valle ho incontrato molte persone che mi hanno raccontato la loro storia, e ho compreso che non possono vivere da soli: si devono salvare a vicenda.

Come ha scelto i due protagonisti, Denis Ménochet e Zar Amir Ebrahimi?

Li ho scelti durante i casting. Essendo questo il mio primo lungometraggio, non mi sentivo “costretto” a scegliere dei volti familiari per il pubblico. Volevo essere travolto dalle emozioni. Poi ho incontrato Denis Ménochet e Zar Amir Ebrahimi: tutto è cambiato. Lei vive in esilio a Parigi dal 2008, è scappata dal suo Paese, l’Iran, in cui le è stato vietato di apparire in film e televisioni iraniane per 10 anni. Quando lo scorso anno ha vinto la Palma d’oro come Miglior attrice al Festival di Cannes per il ruolo di Rahimi in Holy Spider, ero al settimo cielo. Quest’anno era la protagonista in Tatami alla Mostra del Cinema di Venezia…

Il film esplora temi universali come il dolore, il senso di colpa e la cura. Il protagonista Samuel per aiutare Chehreh, cammina, come in una Via Crucis. Tra le notti gelide, la strada innevata che percorrono, indica una strada di redenzione?

Assolutamente sì, perché Samuel cerca fino all’ultimo momento il modo per poter espiare le proprie colpe, di guardare in faccia la realtà, trasformare il dolore causato dalla perdita di sua moglie nell’incidente stradale dove lui è rimasto ferito. Mentre stavo girando il film, sono andato ad una mostra di fotografie. E mentre camminavo, in uno degli scatti ho notato un particolare interessante: un mazzo di chiavi. Allora mi sono avvicinato. Perché assomigliavano molto alle mie. Da qui, l’intuizione. Nel film Zar Amir consegna a Denis un mazzo di chiavi: non sono un mazzo qualsiasi, sono il mazzo di casa sua a Teheran. Possiedono un alto valore simbolico. Come a dire: consegno a te le chiavi perché so che non tornerò più. Ma è un modo anche per far pace con sé stessa.

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