RoFF18 – Wanted. Incontro con Fabrizio Ferraro e il cast

Il mistero di interi quartieri della metropoli che si svuotano di presenze umane: ce ne parla il regista Ferraro col suo film Wanted insieme alle attrici Chiara Caselli e Denise Tantucci

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Presentato in anteprima mondiale alla 18° Festa del Cinema di Roma, nella sezione FreeStyle, il regista Fabrizio Ferraro ci racconta con Wanted la peculiarità del suo sguardo, il mistero di interi quartieri della metropoli che si svuotano di presenze umane. Un inquietante nuovo ordine che indaga e reprime. Le vite di tre donne si intrecciano in un ambiguo gioco di fughe e catture, in cui i ruoli di vittima e carnefice si scambiano fino a confondersi.

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Wanted è un film che si confronta con i generi cinematografici passando dal poliziesco al crime fino al mistery e al drama, li attraversa tutti e li capovolge per uscire dai codici che solitamente li caratterizzano:

Ferraro: In realtà non c’è un vero e proprio genere che prevale sull’altro. In ogni immagine ho cercato di inserirci ogni genere. Questo perché se i fotogrammi sono troppo lineari, il battito del film viene a mancare.

Il ruolo della luce all’interno dell’opera:

Ferraro: Ho fortemente voluto la luce naturale anche negli ambienti interni, perché credo che la luce sia una delle protagoniste del film. Dal filtro al riflesso

La genesi:

Ferraro: Ho pensato a Wanted come un film de-genere. Il levarsi di un grido, una crisi interna alla prigione costituita. Ho scritto il film prima della pandemia e l’ho girato prima della guerra in Ucraina. Non è un film astratto e teorico ma molto concreto e legato a ciò che è accaduto e sta accadendo alle nostre care attualità. In sintesi: we are here! Personalmente, lo trovo un film archeologico: si è cercato di lavorare con quello che si aveva, soprattutto da quello che si dimentica nei luoghi. Penso che in questo modo le traiettorie abbiano sostanza e il materiale ha la giusta densità.

Per le attrici: in che modo avete lavorato sul copione?

Chiara Caselli: Come in un set teatrale, con otto pagine di copione.

Denise Tantucci: Da Ferraro ci è stata consegnata una sceneggiatura parziale: è riuscito nel suo intento, ovvero farci muovere dentro una foschia, non sapendo effettivamente cosa sarebbe accaduto, in modo particolare nel rapporto vittima-carnefice. La sfocatura del confine rappresenta la forza del film.

C’è un oggetto al quale vi siete legate durante la lavorazione, che sentivate vostro?

Caselli: Le scarpe, perché rappresentano il punto di partenza di un personaggio, la postura e il ritmo del corpo. Fanno rumore, possiedono una cadenza ritmica.

Tantucci: Il profumo, perché la mia associazione avviene tramite memoria olfattiva. E poi la musica, perché dà un ritmo ai pensieri.

I personaggi parlano di qualcosa che è accaduto: sembra di stare sulla scena di uno spettacolo di Beckett, si aspetta qualcosa ma non si comprende bene cosa: se fossimo noi il punto interrogativo tra i due personaggi?

Ferraro: Il pubblico non è solo pubblico, è un partecipante attivo del film. Vengono ribaltate le posizioni: chi è che guida la visione? Sento che bisogna andare oltre, anche oltre le definizioni, perché saltano. Se ci pensiamo, anche il termine “personaggio” è diventato ormai manchevole.

Rapporto col distopico:

Ferraro: Il distopico lo viviamo tutti i giorni, perché non riusciamo ad afferrare tutto, è come se arrivassimo in ritardo sempre su tutto. Anche il peso del nostro corpo è rivolto al passato: non ci immergiamo nel futuro, perché in noi vive la continua percezione del passato.

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