#RomaFF11 – Kicks, di Justin Tipping

Funzionano alla grande le atmosfere sospese e visionarie di Kicks, luogo d’intersezione tra proiezione interiore e realtà, che aderisce con incredibile empatia allo sguardo del suo protagonista

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Sono le rime di Mac Dre, Wu-Tang Clan, Nas, Tupac a far da titolo all’ideale divisione in capitoli che scandisce la narrazione di questo primo lungometraggio firmato da Justin Tipping. Sì, perché, nell’America di Kicks, la Bay Area suburbana e tutta afroamericana, l’hip hop, con la sua rabbia e i suoi sogni in rima, è la materia stessa dell’aria che si respira, è l’unico linguaggio possibile che regola e veicola ogni relazione, che accompagna tanto lo scontro quanto lo sballo, e che, mentre si è soli, si continua a sussurrare a se stessi, come dice anche Justin Tipping, per riuscire a sopravvivere.
Funzionano alla grande le atmosfere sospese e visionarie di Kicks, luogo d’intersezione tra proiezione interiore e realtà, che aderisce con una coerenza e una nitidezza, ma anche con un’empatia e partecipazione, che hanno dell’incredibile, allo sguardo che il protagonista quindicenne del film, interpretato da un ottimo Jahking Guillory, proietta su se stesso e sul mondo che abita. Little B, così Brandon viene chiamato dai suoi amici, cammina per le strade sotto il peso di quel sentimento di inadeguatezza, troppo piccolo per la sua età, troppo insignificante perché ci si possa accorgere della sua presenza, che ha la stessa forma banale e consumata delle sue scarpe da ginnastica bianche, finché non trova il modo per cambiare tutto con ai piedi un paio di sneaker rosse e nere, le mitiche Air Jordans. E in un mondo dove, ciò che s’indossa diventa un atto di affermazione, le nuove sneakers di Brandon “non solo scarpe”, ma uno status per cui diventa necessario lottare fino in fondo, a qualunque prezzo. Non importa se bisogna sfidare le proprie paure, correndo dritto verso una realtà, il mondo degli adulti, dove ci si fa male per davvero e dove ogni azione ha una conseguenza, e affrontare quel Flaco che, in una dimostrazione in diretta social della violenza cruda e secca inscritta nella legge della strada, si è portato via le Air Jordans di Brandon.
kicksJustin Tipping non prende le parti di nessuno, come recita uno dei capitoli del film, “good kid, bad city”, sono tutti solo bravi ragazzi in una città cattiva, non è affatto interessato a seguire le strade aperte dal cinema militante di Spike Lee e gira un film tutto di pancia, che se infischia di farsi manifesto di denuncia, e cerca, piuttosto, con la sua avventura dal sapore quasi fiabesco, quell’astronauta che continua a vivere nello sguardo di Brandon, di toccare il cuore dell’universo abitato dal protagonista del film. Una periferia violenta e degradata, ma anche pulsante e incredibilmente viva, basta andare a vedere la scena delle sgommate acclamate da una folla che balla al ritmo hip hop, capace di eguagliare in potenza la danza di Celine Sciamma sulle note di Rihanna, per rendersene conto, che Kicks racconta con un sorprendente lirismo, merito anche la macchina da presa sognante e astratta di Michael Ragen. E, sì, Justin Tipping si lascia qualche volta di troppo prendere la mano dalla trovata della parabola descritta dall’immaginario astronauta come metafora del rito di passaggio vissuto da Brandon, ma il suo rimane un cinema capace di un formidabile impeto, un cinema che non cerca alcuna mediazione mentre, a testa bassa, si tuffa a capofitto in quella caoticità, fatta di solitudine, di rabbia, di senso di abbandono e anche dell’intensità allucinata delle attrazioni, dell’universo emotivo che si agita dietro lo sguardo del suo protagonista.

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