"Sam Mendes, il tempo del cinema".

E' proprio nella prospettiva traslucida di Mendes che confluisce il cinema americano più vitale di oggi, quello di Micheal Bay, quello di Darabont, ma anche quello di Roach/Myers

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Quando il cinema si volta indietro. E' il passato a scorrere, la filigrana acquosa di tanti/troppi momenti che non si vorrebbero mai dimenticare. Il cinema rinasce dalle sue ceneri, si riavvolge nel dormiveglia incantato della modernità scoprendosi in ritardo, o forse chissà, già troppo avanti. Ma soprattutto il cinema rinasce, proprio laddove il filo rotto del modernismo ne aveva decretato la lenta ed inesorabile discesa. Si tratta di occupare uno sguardo, aderendo o meno ad un tempo della visione. A questo punto sarebbe bello chiedersi qual è l'oggi della visione, o meglio, che tipo di cinema è quello in grado di raccontarci lo srotolamento progressivo delle nostre viscere nell'hic et nunc del corpo a corpo con la vita? Rispondere sarebbe un azzardo troppo grande, una scommessa forse fallita in partenza. Ma ci piace, ci seduce, soltanto come ipotesi di giravolta sull'abisso, dunque ci proviamo, tentando di raccontarvi l'impossibile. Sta a dire la storia di uno sguardo che abita il passato per raccontare il presente. Uno sguardo proveniente dalle scivolose falde temporali di uno spaesamento percettivo che è cinema. Allo stato puro. Tutto inizia con un uomo che canticchia sotto la doccia, masturbandosi. E' un corpo, una porzione di campo non ancora bel delineata, un'ipotesi di visione che si impone con un dato assolutamente fisico per tornare nel giro di pochi secondi ad uno stato etereo, astratto, quasi subliminale. La voce fuoricampo inizia così a scandire i singhiozzi convulsi di una memoria saltalenante, confusa, altra. Come la dimensione da cui proviene il suono, uno spazio siderale in cui si rincorrono gli spettri inquieti di un corpo che corpo non è. La scommessa di una visione del genere è semplice, eppure meravigliosamente avanti rispetto ad ogni altro tipo di visione consolidata e ferma: dare cinema del fantasma del cinema. Muovere la gassosità proteiforme dell'obiettivo, raccontando di una voce che diventa corpo che diventa ombra. American Beauty nasce dal desiderio di eternizzare il presente del desiderio, filmandolo come memoria del cinema. Il corpo sotto la doccia è il cadavere-in-vita (il Lynch di Blue velvet insegna) del cinema. La voce fuori campo ne è la colonna sonora. Sam Mendes (il folle chirurgo/autore di questa incisione di strati di carne) è uno di quei pochi autori in grado di operare sulla carne malata del cinema. Stravolgendola. O forse semplicemente temporalizzandola. Sam nasce in Inghilterra nel 1965. Il suo primo amore è il teatro ed è a questo che si dedica terminati i suoi studi all'Università di Cambridge. La sua carriera artistica inizia nel 1988, il suo primo lavoro in teatro è per il Chichester Festival Theatre. Si tratta del Giardino dei ciliegi con cui vince il premio della critica come miglior regista esordiente. Si tratta di uno spettacolo in cui Mendes rispolvera abilmente il suo amore per i classici, aggiornandoli però all'interno di una messinscena in cui il testo di Cechov rivive in almeno due diverse esperienze temporali, quella classica, e quella postmoderna. Nel 1990 è la volta della Royal Shakespeare Academy in cui dirige Ralph Fiennes in Troilo e Cressida nonché Riccardo 3 e La tempesta che gli procura addirittura una nomination all'Olivier Award. La sua è ormai una carriera avviata, tanto che dopo appena due anni Sam diventa direttore artistico del Donmar Warehouse di Londra e inizia ad interessarsi al musical. E' la volta allora di Cabaret, Zoo di vetro e Company con cui riceve la legittimazione definitiva: L'Olivier Award della regia è suo. Questo il Mendes teatrale, un autore che, come abbiamo già notato, fa rivivere il classico, proiettandolo nelle spire programmatiche di un contesto assolutamente modernista. Non è questione di aggiornare il respiro melodico ed eterno dei cosiddetti classici, ma di inglobarli in un progetto estetico di grande forza etica/morale. Il salto al cinema dunque, avvenuto nel 1999. Si tratta di un deposito fotogrammatico in cui si respira aria di normalità quotidiana, con un complesso cittadino che pare uscito fuori da un Daves anni 60'. Poi l'irruzione dell'inconscio, il detour inaspettato nella liquidità amniotica di una superficie scalfita da strani rintocchi funebri. Il protagonista è un uomo che ha problemi con la moglie, sogna di andare con l'amica della figlia, ha un lavoro che non lo soddisfa. Per il resto tutto bene, se non fosse che l'ammasso oscuro della visione nasconde qualcosa di più. Si tratta chiaramente di corpi scoppiati. Mendes mette in scena l'oscenità disarmante di tante/troppe coazioni a ripetere, di abiti lisi e profumanti, di zombie omologati intenti a rappresentarsi sul palcoscenico dorato di un mondo serializzato. Soltanto il protagonista riesce ancora a pensare/sognare/tradire/immaginare.

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Che le cose possano andare in modo diverso, ma non solo. Si tratta di liberare la potenzialità illimitata del corpo, facendolo andare in una direzione opposta rispetto a quella della visione. Mentre la moglie corre a lavorare/guidare/fare l'amore con un altro, Spacey che fa? Si masturba canticchiando, pensando magari ad un incontro con l'amichetta della figlia, il suo sogno erotico più ricorrente. Tutto questo a livello marginale. In realtà si tratta di un corpo scoppiato. Espulso dal set. Ridotto a cantilena ossessiva ed inquietante che torna regolarmente nel refrain dorato del fuoricampo. Spacey è già morto, come mostra il finale, e non potrebbe essere altrimenti. Torniamo allora a quanto detto inizialmente. Si può dare ancora cinema da morti? Certo, abolendo ogni rituale appiglio temporale, e soprattutto ogni sentimento precostituito nei confriyo di questo maledetto mondo/cinema. Uscendo per la strada, innamorandosi improvvisamente di quello che vediamo, provando anche solo per un attimo a re-inventare uno sguardo sonnolento sui simulacri asfittici di un mondo che crediamo ancora di conoscere. Mendes fa tutto questo sprigionando la vitalità impazzita di un corpo incapace di contenersi. Proprio perché appartenente ad un universo che nemmeno ci immaginiamo. Situato a metà strada tra il riflesso oscuro degli occhiali di Essi vivono (datori di una lettura mostruosa dell'ontologicità del Reale, e quelli di K-Pax, preziosa fonte di una illuminazione nuova. D'altronde la luce del sole fa male. Ne sanno qualcosa i protagonisti di Road to perdition, altro capolavoro del regista. A Venezia non è stato accolto benissimo, ma non ce ne meravigliamo. A volerlo liquidare in due parole, potremmo soffermarci sulla preziosità visiva, sullo stile, sui movimenti di macchina. Lasciamo volentieri questo compitino agli esegeti rantolanti di un cinema che non esiste più. Il film di Mendes forse è ancora più epocale del precedente, per certi versi ancora più estremo. Dietro la vitrea pulizia formale, si nascondono i battiti irregolari di un cuore che non smette di battere. L'omaggio al cinema di genere di Mendes è semplice e al tempo stesso grandissima lezione su come rivivere l'emozione del trovarsi nel cinema di ieri, immaginando per un attimo che possa essere ancora quello di oggi. E' un tornare indietro, un riavvolgersi nell'oblio atopico di uno sguardo in assenza di sguardo, proprio perché incapace di abitare un solo corpo. Ed è proprio nella prospettiva traslucida di Mendes che confluisce il cinema americano più vitale di oggi, quello di Micheal Bay, quello di Darabont, ma anche quello di Roach/Myers. E' tempo di dire basta con i giochetti citazionisti di Soderbergh, con quelli nauseanti/mortiferi di Von Trier, con quelli arroganti e afilmici di Mullan e compagnia bella. Oltre il modernismo, oltre il terribile postmoderno, oltre una sintassi filmica incapace di dirci l'oggi perché prigioniera di dilemmi programmatici che non interessano nessuno. E' giunto il momento di rioccupare con tutta l'intensità di sguardi non riconciliati ogni brandello di cinema vecchio e nuovo che sia, rispettandolo/vedendolo/sognandolo/mangiandolo. E magari sovrapponendolo come fa Mendes, operando direttamente innesti sbilanciatissimi di un cinema che fu, con quelli di un cinema che ancora non c'è.

 

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