SAN SEBASTIAN 51 – Coreani!

Dalla Corea del Sud, due film si impongono al 51.mo festival spagnolo: in Concorso, il triplo gioco tra narrazione, indagine e memoria sul quale lavora l'ottimo “Memories of Murder” di Bong Joon-ho; a Zabaltegi il nuovo Kim Ki-duk, “Spring, Summer, Fall, Winter… and Spring”…Dal nostro inviato

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SAN SEBASTIAN – La norma e il furore, l'istinto e la verità, il tempo e la vita… S'inseguono lungo questa direttrice i due film coreani che hanno sinora offerto alcuni dei momenti cinematograficamente più intensi di questo 51.mo Festival di San Sebastian. Da una parte, in Concorso, il triplo gioco tra narrazione, indagine e memoria sul quale lavora l'ottimo Memories of Murder ("Sa-lin-eui chu-eok"), opera seconda di Bong Joon-ho, che quattro anni fa già aveva fatto parlare di sé in una decina di festival con Barking Dogs Never Bite; dall'altra l'ennesima corferma di Kim Ki-duk, autore questa volta di Spring, Summer, Fall, Winter… and Spring ("Bom, Yeoreum, Gaeul, Gyeowool, Geurigo, Bom"), in caduta libera nella sezione Zabaltegi dal Concorso di Locarno, dove ancora una volta lo scorso luglio una giuria internazionale non gli aveva reso giustizia, ingorandolo nel palmarés concluvo.

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Stranamente, in entrambi i casi si tratta di film che si confrontano con la ciclicità degli eventi in un'ottica destinata a elaborare l'umana trasparenza delle azioni, partendo da una dimensione di ingenuità posta fuori dal mondo, ma destinata ad essere infine toccata e cambiata dall'incedere di una realtà che muta le prospettive. Estatico e teorico nella sua elaborazione, Spring, Summer, Fall, Winter… and Spring porta il cinema di Kim Ki-duk a una definizione limpida e precisa delle sue abituali coordinate che sinora non avevamo ancora incontrato, limite e grandezza di un film al quale va riconosciuta una purezza e una forza espressiva desuete per un autore di solito più irruento e virulento. La scansione delle stagioni proposta dal titolo corrisponde ai cinque capitoli in cui il film è suddiviso e, di conseguenza, alle cinque evoluzioni che caratterizzano la vita del suo protagonista.

Un monaco, che vive sin dall'infanzia col suo anziano maestro, in un monastero buddista galleggiante su un lago in una paradisiaca vallata, è il corpo sul quale Kim Ki-duk scrive la sua ennesima parabola sul libero arbitrio e sui vincoli della passione. Cresciuto in simbiosi con la vita e la natura grazie agli insegnamenti del suo maestro, il giovane monaco finisce col conoscere il peso di un destino che lo lega alla passione per una giovane donna bisognosa di cure affidata dalla madre al monastero: scapperà con lei seguendo un desiderio che si tingerà di possesso e di gelosia assassina; tornerà, furente di rabbia e dolore, per scontare le pene dello spirito, prima di consegnarsi alla polizia per scontare le pene del corpo; ritornerà, ormai uomo, per prendere il posto del suo maestro ormai morto e per crescere a sua volta un altro piccolo , affidatogli da una madre in lacrime destinata a morire…

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Il ciclo della vita per un film che Kim Ki-duk consegna a una simbiosi con gli elementi naturali che va oltre il suo tradizionale apparato simbilico: l'acqua e il sangue si intrecciano ad una dimensione estatica che sembra voler dirimere ogni contrasto del cuore, ma alla limpidezza della parabola l'autore somma un sentimento di purificazione che vive con disperazione sulla sua carne, prendendo per la prima volta sul suo corpo di improprio attore il ruolo del monaco adulto, e forzandosi alla fondamentale sequenza di una scalata in cui trascina il peso di un masso e di una statua da porre in cima alla valle. Intriso di un senso della natura pacificato, il film risolve insomma il perenne tema della figura materna che soggiace da sempre alla figura femminile nel cinema di Kim Ki-duk: sicché non c'è più solo l'acqua in cui immergersi, ma l'insieme degli elementi naturali, in una conciliazione con una madre/donna ormai non più fantasmatizzata nel desiderio, ma accettata e riconosciuta al di là del bisogno di possesso…

Alla conferma di un autore come Kim Ki-duk, del resto, queste giornate di San Sebastian contrappongono la segnalazione di quello che potrebbe essere un nuovo nome forte del cinema sudcoreano: con Memories of Murder, infatti, Bong Joon-ho elabora una dimensione molto personale del confronto tra tempo interiore e storia nazionale, nell'ottica di una ricerca della verità nascosta nelle ombre della vita quotidiana. La struttura della detection si sviluppa sull'inchiesta che, in un sobborgo rurale di Seoul, vede la polizia annaspare sui reiterati crimini di un serial killer, intento a stuprare e assassinare donne, agendo nelle notti di pioggia secondo un rituale ben preciso e immutabile: dieci omicidi in sei anni, realmente accaduti tra l'86 al '91, mentre il Paese viveva all'ombra persistente delle paure d'invasione dal Nord del 38.mo parallelo, raccontati da Bong Joon-ho giocando sulle rilucenze di una memoria a breve termine ma già distante nel passato, come in un'infanzia perduta, o in un amarcord ingiallito nella simpatia dei caratteri (i poliziotti di provincia e la gente semplice della campagna…) e angosciato nell'orrore dei delitti.  E il film lavora bene soprattutto in questa elaborazione del mistero del serial killer, destinato a restare irrisolto, in cui trova forma un immaginario d'altrove che trae al contempo  linfa dal tessuto della realtà di un paese impaurito dentro, sospeso sui black-out antibombardamento, gli allarmi, le fughe…


Bong Joon-ho lavora su una dimensione epica della memoria, alla quale lascia il compito di rendere le tre dimensioni di una storia altrimenti banalmente soggetta alle regole del serial-thriller, e invece capace di maturare una visione critica della realtà interiore dei suoi personaggi, della loro storia e della storia coreana.

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