SAN SEBASTIAN 56 – "Den du Frygter", di Kristian Levring (Concorso)

fear me notCon uno sguardo cupo e sfuggente che avvolge i corpi e li tiene prigionieri in una opprimente ambiguità, Levring s’insinua lentamente nelle pieghe nascoste della mente di Mikael, il protagonista di Den du Frygter interpretato dall’ottimo Ulrich Thomsen che riesce perfettamente a dar corpo al freddo distacco e alla rabbia compressa e feroce nella quale si perde il suo personaggio

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fear me notDen du Frygter è un film popolato da forme instabili, come la superficie dell’acqua che il danese Kristian Levring, tornato a girare in Danimarca dopo The King Is Alive e Quando verrà la pioggia, si volge più volte a contemplare e che occupa lo schermo con la sua trasparenza negata, con il suo scorrere incerto e in continua mutazione, come la campagna che ospita la fuga del protagonista della pellicola, zona di confine che non permette alcuna apertura e nella quale affiorano, pur senza mai divenire espliciti, i traumi nascosti nella memoria, e come la casa nella quale si muovono i personaggi del film, uno spazio arioso, lineare e allo stesso tempo labirintico e provvisorio. Con uno sguardo cupo e sfuggente, che avvolge i corpi e li tiene prigionieri in una opprimente ambiguità, che purtroppo manca troppo spesso di vera intensità, Levring s’insinua lentamente nelle pieghe nascoste della mente di Mikael – l’ottimo Ulrich Thomsen, che riesce perfettamente a dar corpo al freddo distacco e alla rabbia compressa e feroce nella quale si perde il suo personaggio – che, dopo la decisione di lasciare momentaneamente il lavoro e di partecipare ad un programma di sperimentazione di un nuovo farmaco antidepressivo, sprofonda in un territorio oscuro e affascinante, nel quale scopre una passione e una forza sconosciute. Den du Frygter penetra nella personalità scissa e senza più forma di Mikael e, in un avanzare disorientante che inverte continuamente la sua traiettoria senza fornire alcuna rassicurante risposta e accumulando deviazioni improvvisamente interrotte, insegue il tentativo, sempre più urgente, sempre più necessario, del suo protagonista di riprendere un controllo ormai impossibile, forse mai esistito, di evadere dal piatto conformismo nel quale si è confinato e di liberarsi dalle costrizioni imposte dalla vita famigliare, segnata dall’impossibilità di comunicazione e di vero contatto. Affacciato su un baratro che ha inghiottito la sua esistenza, ogni sua sicurezza, ogni affetto, ogni necessità che non sia la fuga, Mikael si muove in una totale assenza di umanità, cancellata dal suo cieco dolore, avanza verso un folle miraggio con una crudeltà incredibilmente lucida e quasi priva di emozioni – che Levring lascia serpeggiare senza mai farla esplodere, se non nel finale del film – e, seguendo il suo disegno malato, si convince di poter trovare una via di fuga, di riuscire a sottrarsi al malessere che lo soffoca solo grazie al controllo e alla violenza che riesce ad esercitare sulle vite che gli scorrono accanto.

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