Sentieriselvaggi21st #4 – Barbie, un’icona di bellezza e femminismo

Mentre è in sala il film di Greta Gerwig riproponiamo, dalla nostra rivista del 2019, un’estratto dal bel libro di Valeria Arnaldi, Barbie, la Venere di plastica (Lit Edizioni)

Creata nel 1959 da Ruth Handler, la bambola più famosa del mondo ha compiuto 60 anni. La sua immagine irreale e perfetta ha incarnato i sogni e le aspirazioni di intere generazioni e ha saputo rivoluzionare a 360° i criteri performativi e sociali della femminilità.
La celebriamo attraverso alcune pagine del bel libro scritto da Valeria Arnaldi, Barbie, la Venere di plastica (Lit Edizioni), che smonta la narrazione di modello di femminilità schiava di un immaginario maschile, per rovesciarla in una lettura che rimette la donna al centro di tutte le nuove narrazioni

Oltre l’armonia
Alta, bella, bionda, curvilinea, capace di ogni impresa. Iconica. Eternamente giovane. Imperfetta per la realtà, ideale per i sogni. Modella – anche musa – di più stilisti e soprattutto modello di numerose generazioni. Di bambine e pure donne che sognano di diventare come lei e di uomini, che fantasticano di incontrarla. Barbie ha sessant’anni. Tanti ne sono passati infatti dalla sua invenzione, ma il suo concept non conosce rughe. Né concorrenza. Nonostante i cambiamenti di stile, esigenze, gusti e nonostante le molte bambole che hanno cercato di imitarla e superarla – e a tratti sono riuscite forse a scardinare il suo posto nel cuore delle piccole clienti – Barbie è rimasta sempre sul podio, fino a farsi mito, concetto prima ancora che oggetto, filosofia e non semplice prodotto.
Nata dalla fortunata intuizione di Ruth Handler, moglie del cofondatore del marchio Mattel, per donare alla figlia un gioco che le permettesse di immaginarsi adulta, la doll più famosa del mondo ha travalicato rapidamente il mondo del giocattolo per farsi fenomeno di costume. E come tale è stata celebrata, studiata ma anche “giudicata”. Andy Warhol, nel 1986, l’ha portata nel mondo dell’arte, consacrandola immediatamente a icona pop e, al contempo, di femminilità alla pari con Marilyn Monroe. Altri artisti hanno seguito il suo esempio, trovando nelle sue forme il simbolo con cui sintetizzare un intero universo fatto di stereotipi e cliché, di lussi, frivolezze e aspirazioni, condannando l’orizzonte fittizio e limitato, più ancora ritenuto limitante, del suo mondo di plastica, ma anche animato da desideri, sogni, fantasie, meraviglia. Eccesso. Allo stesso tempo però per quelle stesse caratteristiche che la rendevano – e rendono – iconica, Barbie nel tempo è stata oggetto di più accuse e proteste di molti, soprattutto molte, che hanno visto nella sua immagine quella di una donna schiava di un immaginario maschile, costretta a essere perfetta per appagare le richieste della società.

Venere in miniatura, Barbie è nata il 9 marzo 1959 dal desiderio di una madre di proporre un giocattolo diverso alla figlia per permetterle di immaginare il suo futuro. La riflessione è semplice e nasce dalla mera osservazione. Esistono giocattoli per l’infanzia, non per le bambine più grandicelle che cominciano a guardare al mondo e al domani, immaginandosi donne.
Lasciati i bambolotti alle spalle, sua figlia passa il tempo con le immagini delle dive ritagliate dalle riviste. Non si diverte più o almeno non solo giocando a farsi mamma di questo o quel bambolotto, le piace immaginarsi grande, bella, di successo. Felice. Ecco cosa Ruth vede nel gioco della figlia. Ed ecco cosa offre alle bambine della sua generazione e in realtà poi a molte più di quelle: la possibilità di inventarsi un domani differente da quello che la società suggerisce, di fatto impone, loro. Non dovranno necessariamente diventare mogli e madri, potranno crearsi una carriera e, a giudicare dalle infinite professioni che intraprenderà Barbie, potranno seguire sogni, ambizioni e fantasie, certe che, come suggerisce quella felicità di plastica rosa, saranno sempre coronati da successo. Normale che le bambine se ne lascino conquistare. Normale che adolescenti e giovani cerchino di somigliarle. Il modello cui guarda Ruth per dare alla figlia un orizzonte alternativo è l’unico che conosce ed è tutt’altro che infantile. Si tratta infatti di Bild Lilli, bambola lanciata sul mercato tedesco qualche anno prima, nel 1955, ma destinata a un successo ben più breve di quello della sua “imitazione” – fu commercializzata solo fino al 1964 – e pensata non per un pubblico di bambine bensì per adulti. Lilli non è la classica bambola giocattolo ma la più sofisticata (e cresciuta) versione di un oggetto-donna. Non è pensata per farsi modello, né per farsi protagonista di scenari fiabeschi, ma per essere la regina di fantasie concrete, anzi carnali.

Non propone un ritratto della donna con cui identificarsi, bensì una parodia dell’immagine femminile vista dagli uomini. Sono proprio gli sguardi maschili a “disegnare” il suo corpo.
Lilli è una ragazza formosa, fintamente ingenua, che si diverte a stregare uomini facoltosi. È la femme fatale del periodo. Una bionda patinata. Un’icona da cinematografo. Viene utilizzata come regalo o gadget che dir si voglia per addii al celibato o occasioni simili. Stuzzica le fantasie, non incarna sogni. A disegnarne il bozzetto e definirne carattere, temperamento e rimandi era stato il vignettista Reinhard Beuthien, per il tabloid tedesco Bild, che l’ha concepita, appunto, come una femme fatale: vita stretta, curve in mostra, abiti fascianti e irrinunciabili tacchi a spillo. Lilli è la bionda accondiscendente che si fa adorare e dice sempre sì, ben felice di essere un oggetto del desiderio.

Non è l’intuizione a guidare Ruth in realtà verso quella bambola decisamente insolita per l’infanzia, ma il mercato. Nella sua unicità, diversa da tutto ciò che il mercato propone, Lilli, con le sue curve adulte e il suo ricco guardaroba, diventa rapidamente l’oggetto del desiderio delle giovanissime. Ruth ne compra un paio, poi le mostra al marito, esponendogli la sua idea: quella doll può essere il prodotto di punta del loro marchio. Il marito non è convinto, è una scommessa azzardata e non ha voglia di farla. Alla fine però si lascia persuadere e rivede la bambola per adattarla alla sua nuova platea. Grazie al sostegno dell’ingegnere, Jack Ryan Mattel ripensa l’aspetto della doll non andando a stemperare quegli stessi caratteri che prima erano stati giudicati “eccessivi” ma addirittura esasperandoli. Le bambine sognano di essere donne seducenti, dive da riflettori? E sia, che lo facciano al meglio.
Barbie avrà un fisico da burlesque, disegnato ad arte per sedurre. Ryan è la persona perfetta per farlo: subisce fortemente il fascino femminile, è al suo quinto matrimonio, e nutre una passione sfrenata per feste e divertimenti. Sa come realizzare il prototipo di una donna cui nessuno sappia resistere. Dando corpo alla Venere in miniatura, Mattel riprogetta i canoni estetici femminili, rivoluzionando secoli di canoni di bellezza muliebre e ideando una nuova misura di armonia, che sembra completamente dimentica della storia. I criteri antichi vengono superati. L’equilibrio cede il passo alla straordinarietà. Paradossalmente Mattel non riduce le forme della Lilli da cui ha preso ispirazione. Anzi. Tra seno prorompente, fianchi stretti e piedi piccoli e sempre in punta, a Barbie conferisce il caratteristico equilibrio precario, immaginifico, che la rende inconfondibile.
Nell’esagerazione è il primo gusto del gioco e pure la sua salvezza. L’eccesso doveva forse essere il segnale per far capire alle bambine che si trattava solo di un giocattolo e non di un traguardo concreto. Un indizio evidentemente troppo paludato. Barbie diventa un’icona e viene consacrata proprio a quel modello che si voleva evitare diventasse.

 

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