Sguardi Altrove Film Festival e il quarto femminismo

Racconti biografici, storie di umanità, catastrofi: c’è bisogno di un riscatto, insito nelle immagini semplici, universali, incisive, di questa edizione appena conclusa del festival Sguardi Altrove

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Regista, ambientalista, genio, ribelle. Quante volte all’udire di queste parole viene evocata l’immagine di un uomo, più che una donna, anche in casi quali “artista” ove la parola è di genere femminile? Viene da chiedersi dove correrebbe prima la mente se invece la parola pronunciata fosse “vittima”.

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Premessa questa ispirata da un documentario spagnolo (The Expert di Carlota Coronado, presentato nella categoria Sguardi (S)confinati), ove viene proposto un indovinello: “un padre e un figlio hanno un incidente d’auto e il padre muore. Il figlio viene portato in ospedale per essere sottoposto a un’operazione molto complicata, ma quando arriva il luminare dice ‘non posso operarlo, perché è mio figlio’. Chi è il luminare?” Si tratta di un indovinello semplicissimo, eppure sottolinea un problema che ancora persiste nonostante si sia ormai nel duemilaventi: le persone intervistate hanno pensato immediatamente che il luminare fosse un uomo, ma essendo il padre morto nell’incidente il quesito si è rivelato sorprendentemente impegnativo. Alcuni si sono arrovellati così tanto da arrivare a dare risposte quali “Dio” o “padre fantasma”, non vedendo la soluzione più ovvia: che il luminare fosse semplicemente la mamma.

Sguardi Altrove Film Festival, che ha visto concludersi la sua edizione speciale, è tra le più importanti manifestazione cinematografica italiana legata al mondo femminile, la cui reazione alle ultime restrizioni per il covid-19 è stata trasferire proiezioni e incontri su piattaforma online tramite MyMovies. Ogni anno si propongono riflessioni su tematiche inerenti a diversi contesti secondo una prospettiva multiculturale e globale; il tutto attraverso la cinematografia, promuovendo così la circolazione di opere firmate da donne che trovano difficoltà a entrare nei circuiti commerciali, sia di registe affermate che emergenti. Questa edizione 2020 si è svolta dal 23 al 31 ottobre con la direzione artistica di Patrizia Rappazzo; con ben 60 opere tra lunghi, cortometraggi e documentari- e altrettante interviste e conversazioni – ha avuto come tema guida “Il futuro sostenibile: Donne Ambiente e Diritti Umani”.

Esplorando la piattaforma del festival e vivendone le storie, siano esse intime e personali o su vasta scala, viene fuori anche un fil rouge che fa un po’ da sottotrama: la rivendicazione. Racconti di storie vere, dal femminicidio per delitto d’onore raccontato da terzi (come avviene in A regular woman di Sherry Hormann) all’infanzia rubata di quella che è stata una sposa bambina, raccontata in prima persona dalla stessa (Red Moon di Tülin Özdemir), fino al documentario atto a riportare in vita le memorie di un’esistenza realmente vissuta che s’interroga sul senso di diventare donna in un’epoca segnata da avvenimenti storici determinanti come il fascismo (Clara e le vite immaginarie di Giulia Casagrande) e a situazioni più sociali (Your Turn di Eliza Capai) quali la più grande rivolta studentesca avvenuta in Brasile. Racconti biografici, storie di umanità, catastrofi: c’è bisogno di un riscatto, insito nelle immagini semplici, universali, incisive, che puntano tutto sulla forza della testimonianza, della realtà vissuta in prima persona; voci che vogliono essere ascoltate, gridare al mondo “io l’ho vissuto” o, ancora meglio, “qualcuno l’ha vissuto”.

Siamo nella quarta ondata del femminismo, e la visione complessiva delle opere spinge sempre più in avanti l’idea che ci si sta dirigendo verso un femminismo più comunicativo e aperto alle differenze, che si avvicina sempre più a una rivoluzione: più di una moda, più di un invito. E il cinema femminista porta con se il germe della battaglia, che cresce con la visibilità, le sperimentazioni, le riletture; è una lotta che parte dalle donne, ma non si ferma solo a loro, estendendosi verso l’emancipazione dei più e l’ottenimento di diritti umani per tutti. Il cinema femminista non è quindi solo tale, ma è anche cinema sensibile: non nel senso di fragile, ma in grado di catturare ogni sensazione di disagio. Dai problemi più evidenti, quali un disastro ambientale (The Blue Cape di Alejandro Lòpez), le cui conseguenze vengono mostrare in cinque minuti di ripresa dove la camera segue un bambino nella sua ingenua missione di salvataggio, a quelli più interiori, come una mamma che cerca di entrare in contatto col suo bambino appena nato (She has your eyes di Selvaggia Messi), vivendo una situazione di estrema paranoia. È possibile che quest’accumularsi di esperienze e di visioni di registe emergenti possa portare a un dualismo ove l’originalità si perde in storie diventate ormai di routine, visto che nel corso della storia si sono ripetute fin troppe volte e fin troppe sono state ignorate. Ma non c’è blanda retorica che tenga: la continua rappresentazione di questi disagi è necessaria.

Queste battaglie occupano anche i sogni perché facenti parte della realtà (Kedamono – La Belva di Antonella Fabiano e Chiara Speziale), come mostrato nel cortometraggio animato di ambientazione nipponica, che con un semplice ma efficace gioco d’immagine ricorda come bisogna spostare lo sguardo da ciò che sembra per indagare e spingersi in profondità, in linea col pensiero del festival stesso: non solo per il suo nome – Sguardi Altrove, per l’appunto – ma anche per il quanto sia forte e insita nelle viscere la brama di rivendicazione, tanto da sognarla.
Sono battaglie che hanno le loro radici nel personale, come quando si vive quotidianamente nella “morte” e nel dolore senza però riuscire mai ad abituarcisi, e in cui un sogno di rivalsa può equivalere al comprare una semplice tromba (White Coffee di Gloria Tauk); e che si fanno globali e condivisibili in cui una storia di violenza sulla donna diventa tante storie di violenza sulle donne (Anna Rosenberg di Michele Moscatelli); o ancora il contrario, un problema globale, come quello climatico, che si trasforma in un problema personale che viene preso a cuore da singoli individui (Hands On: Women, Climate Change di Liz Miller, Nupur Basu, Mary Kiio, Iphigénie Marcoux-Fortier & Karen Winther), come mostrato nel documentario che vede quattro donne di culture e generazioni diverse lottare con le proprie mani per la causa, dimostrando quanto sia potente il modo in cui l’ingegno femminile trasferisce conoscenze e reti locali attraverso strategie pratiche.

Da sempre Sguardi Altrove racconta infatti di attualità, e in quest’edizione speciale risalta il bisogno fisiologico di rivalsa da parte di chi ha vissuto o vive ancora storie segnate da pregiudizio, discriminazione e ingiustizie e ha scelto di farlo sapere al mondo, rielaborando la violenza attraverso il cinema e facendo della narrazione anche informazione.
Prima ancora di poter vincere queste battaglie è necessario mostrarle, raccontarle, gridarne l’esistenza a chi non sa che esistono o sono esistite. Si tratta pertanto sempre di cinema come catarsi, ma ancora di più come diario di ingiustizie – e questo è infondo il principio dell’arte stessa, che testimonia la presenza dell’uomo sulla Terra.

Hands On: Women, Climate Change

Si parla tanto di futuro, ma per riuscire davvero a immaginarlo è fondamentale tenere sempre l’occhio sul passato; per quanto possano essere racconti lontani nella linea temporale sono comunque vicini alla società attuale, perché certe discriminazioni e modi di pensare malsani sopravvivono ormai da millenni. È infatti un cinema che viaggia nel tempo e s’interroga, osservando passato e presente, su quale sarà l’approccio a esso delle nuove generazioni e soprattutto delle donne. Aiutare a riconoscere ed apprezzare la femminilità e il femminismo dell’arte cinematografica è il primo passo per un futuro senza discriminazioni di genere.
E com’è stato detto durante il dialogo corale con l’autrice del libro Luna Nera e le sceneggiatrici dell’omonima serie tv, quando c’è una donna dietro la scrittura o la macchina da presa – anche per loro esperienza personale – quella diventa la particolarità più importante dell’opera stessa, il fulcro su cui basarsi. Opere scritte da donne, per le donne, parlando di donne: questa è la filastrocca odierna quando una donna dirige o scrive un’opera personale; invece quello che producono gli uomini non è mai stato considerato come “per uomini”. La prospettiva del genere dominante ha omogenizzato l’offerta a tal punto da aver reso il cinema sempre un’arte maschile, portando allo svilupparsi dell’idea che quello che sta succedendo oggi con il cinema femminile, che comunque non andrebbe etichettato, sia solamente in linea con la moda del momento e legato al movimento #metoo. Ma, come tutte le cose, questa è solo apparenza, lo dimostra anche il documentario (Perché sono un genio di Steve Della Casa) su Lorenza Mazzetti – regista, pittrice e scrittrice che negli anni cinquanta ha rivoluzionato il cinema inglese e fondato il movimento del Free Cinema. La regia è anche femminile, è sempre esistita e fin dalle origini del cinema ha generato opere di grande impatto sociale e culturale. D’altronde i diritti umani, l’ambiente, la tecnologia, il futuro, la discriminazione non sono tematiche di genere.

Il problema comunque non è relegato solo alle donne nel cinema, ma a qualsiasi donna ricopra un ruolo professionale di una certa importanza. Si ripensi all’indovinello del documentario spagnolo, in cui è stato impossibile per le vecchie generazioni immaginare che era la donna il luminare, mentre invece è stato facile per i bambini, le nuove generazioni, il futuro.

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