Shin Masked Rider, di Hideaki Anno

Opera ambiziosa ed ermetica, che si erge a baluardo ultimo dell’immaginario pop nipponico. L’adulazione verso la materia non le permette però di modernizzare il mito di Kamen Rider. Su Prime Video

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Visto dall’esterno, questo Shin Masked Rider può risultare un oggetto propriamente impenetrabile, e non solo per chi, come buona parte degli occidentali, non è assuefatto all’iconografia del mitico motociclista mascherato. Perché già solo da un punto di vista produttivo, il film di Hideaki Anno è una gemma rara, un testo anomalo che viaggia simultaneamente su due binari: quello del cosiddetto “Shin Japan Heroes Universe”, un universo semi-condiviso in cui vengono rivitalizzate alcune delle icone più note della cultura popolare nipponica – tra cui Godzilla, Evangelion e Ultraman; e quello della nostalgia otaku più sfrenata e citazionista, filtrata qui da una prospettiva deliberatamente generazionale. Ma ciò che rende inintelligibile un’opera così autoctona e sintomatica dell’immaginario del Sol Levante, è la scarsità con cui Kamen Rider – questo è il titolo originale – ha fatto storicamente breccia sugli schermi del globo. Rispetto al lucertolone radioattivo o alla seminale opera animata di Anno, la serie targata Tōei (1971-1973) e ideata dal mangaka Shotarō Ishinomori di fatto non è mai stata interessata da un seguito transnazionale, confinandone l’immaginario – alla pari dello stesso Ultraman – agli orizzonti culturali del solo arcipelago nipponico.

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In questo senso gli unici che nel corso delle decadi hanno avuto la possibilità di storicizzare i racconti di Kamen Rider e di ragionare sugli effetti che la serie ha avuto sugli sviluppi delle narrazioni tokusatsu (opere con largo uso di effetti speciali in stile Super Sentai/Power Rangers) sono stati proprio i giapponesi. Ecco allora che Anno, in qualità di nume tutelare dell’immaginario pop nazionale, si pone come l’ultimo difensore della nostalgia, il protettore di icone e racconti su cui intere generazioni di bambini nipponici hanno sublimato i loro interessi – quando non addirittura le loro identità. Cercare perciò una via di fuga dall’affastellamento infinito di citazioni e connessioni intertestuali, è una possibilità quasi vana. Quel che si può fare davanti ad un testo così impermeabile all’universalità come Shin Masked Rider è abbandonarsi al suo richiamo nostalgico. Anche se non si conoscono le basi che ne strutturano l’immaginario o le logiche con cui articola i suoi discorsi. Fino a sospendere il dubbio, ogni qualvolta il film inciampa in una delle (tante) trappole citazioniste, i cui unici destinatari – cioè gli spettatori giapponesi – presentano in merito attitudini e conoscenze decisamente più complete delle nostre.

Già l’incipit, che ripercorre pedissequamente le immagini della sigla originaria di Kamen Rider, suggeriscono in questo senso una trasparente dichiarazione d’intenti: vediamo Takeshi Hongō (Sosuke Ikematsu) sfrecciare a tutta velocità su una motocicletta, nel tentativo di seminare i mostruosi nemici che lo inseguono; all’apparenza è un semplice umano, ma nel momento in cui viene raggiunto da queste enigmatiche figure, mostra dei poteri inimmaginabili: si tratta in realtà di un uomo-cavalletta, trasformato in cyborg dal geniale professore Midorikawa (Shinya Tsukamoto) in seguito ad un esperimento sul “prana”, una fonte di energia miracolosa che dona a chi la ingerisce delle potenzialità semi-divine. L’organizzazione criminale Shocker sta infatti creando grazie a questa materia un esercito di soldati-mutanti, ed è intenzionata ad uccidere tutti coloro che possono ostacolarne i piani, tra cui il professore e la figlia Ruriko (Minami Hamabe). Proprio lo scienziato, poco prima di morire, avvertirà il ragazzo sulle evoluzioni corporee generate dal prana – ed è ironico che sia proprio il padre del body-horror giapponese, Tsukamoto, a suggerirlo – e sulla necessità di proteggere la figlia-cibernetica dalle mire espansionistiche dei nemici. A questo punto il cammino per una ricontestualizzazione odierna del mito è tracciato: da qui può iniziare il viaggio nei ricordi (personali) del regista e (collettivi) della generazione a cui appartiene.

Non è un caso che la prima metà del film abbia il sapore di un grande greatest hits, in cui tutto è finalizzato a sintetizzare – anche solo parzialmente – le logiche e le iconografie popolarizzate dalla serie originale. Al punto che qui sembra esserci spazio solo per un’indagine superficiale del mito di Kamen Rider, con la narrazione che presenta un affastellamento continuo di nemici/icone, che partendo dai lidi della nostalgia, ri-entrano in campo solamente come immagini, come puri iconismi privati di background o fini narrativi. La loro essenza risiede infatti nella corporeità che mettono in scena, e non nei modi in cui rispondono alle necessità dell’intreccio. Una soluzione che potrebbe anche apparire gradita al pubblico di fedeli, ma che priva il racconto di un respiro universale. Se in Shin Godzilla Anno aveva trovato una chiave di lettura veramente moderna per re-interpretare le premesse atomiche del celebre mostro, dal momento che la tragedia nucleare di Fukushima non si faceva più segno della sconfitta bellica o delle relazioni bilaterali con gli Stati Uniti ma di un evento interno e politicizzato – con i protagonisti che di conseguenza non appartengono alla sfera del popolo come nel Godzilla di Honda, ma a quella dei burocrati, e con l’atomica che si risemantizza come energia e non come arma di distruzione – in Shin Masked Rider, purtroppo, non si va mai al di là del rispetto reverenziale verso la materia originaria.

Eppure qualcosa di Anno c’è. E il film funziona proprio nel momento in cui la narrazione converge verso le sensibilità estetiche del regista, a partire – guarda caso – dalle sequenze animate. È nei momenti più deliberatamente action, in cui la stop motion si integra organicamente agli spazi reali, che assistiamo a soluzioni visuali impressionanti, che portano il senso di questa operazione oltre la mera riflessione nostalgica. Un andamento che richiama anche l’opera più “tokusatsu” del regista, cioè Cutie Honey (2004), che tra grandandoli, montaggio sincopato, atteggiamenti idiosincratici dei personaggi e fotografia surrealista, si pone come antesignana di questo Shin Masked Rider, rendendolo perfettamente coerente con il percorso artistico del cineasta. Tanto che il desiderio del villain Ichirō Midorikawa (Mirai Moriyama) di creare un mondo di sole anime appare qui come la prosecuzione ideale del “piano di perfezionamento dell’uomo” ideato da Gendō nella saga che ha reso l’animatore una leggenda: cioè Evangelion.

Eppure nel guardare un’opera così ambiziosa e al tempo stesso così miope rispetto alle istanze dei suoi omologhi cinematografici si percepisce un senso di straniamento: perché Shin Masked Rider potrebbe anche essere il lavoro più personale di Anno, quello che risveglia i sentimenti reconditi del suo animo otaku. Ma ciò che traspare sullo schermo è uno scontro continuo tra tradimento e adulazione della materia, tra il sogno di imprimere il proprio marchio nell’universo di Kamen Rider e l’incubo di deludere il bambino che è dentro di lui. Una sensazione che paradossalmente, per chi ama da sempre i deliri idiosincratici del cineasta, dona un fascino ulteriore a questo racconto. Che sì sarà ermetico, sfilacciato e respingente. Ma è pur sempre cifra di una poetica che non risulta mai stagnante o innocua. Anche quando non raggiunge le vette del (recente) passato.

Titolo originale: Shin Kamen Rider
Regia: Hideaki Anno
Interpreti: Sosuke Ikematsu, Minami Hamabe, Tasuku Emoto, Mirai Moriyama, Shinya Tsukamoto, Nanase Nishino, Toru Tezuka, Nao Omori, Tori Matsuzaka, Masami Nagasawa, Kanata Hongo, Yutaka Takenouchi, Takumi Saitō, Suzuki Matsuo, Mikako Ichikawa, Toru Nakamura
Distribuzione: Amazon Prime Video
Durata: 121′
Origine: Giappone, 2023

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.3
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Il voto dei lettori
3.5 (2 voti)
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