The Bear, di Cristopher Storer
Una serie puntualissima nel raccontare il presente. Il missaggio del suono e la frenesia delle situazioni creano un trasporto sullo spettatore davvero unico da trovare. Su Disney+
Chicago vive immersa in un melting pot sovraffollato e perennemente attraversato da persone, in metro, nelle stazioni, nei bar e nei ristoranti. Carmy è la personificazione dello stress test cui siamo sottoposti giornalmente, senza apparente via d’uscita. Tutto lo staff del ristorante da aggiustare, lascito del defunto Michael al fratellino, è un ecosistema vivo e pulsante che ci ricorda l’importanza della singolarità; del mantenere la calma – come vediamo nel finale della seconda stagione, un finale che è un epifania. Tutto lo staff sarà impiegato, sotto la guida di Carmy (chef da stella Michelin) alla rieducazione e alla rinascita del The Beef, una tavola calda alla deriva, tramite un addestramento – quasi come in uno shonen – degli impiegati. Ma quali sono gli aspetti che rendono The Bear una serie così tanto libera; nonchè necessaria nel panorama contemporaneo?
Il lavoro che The Bear svolge col montaggio del suono è qualcosa di eccelso. Le grida sono i punti di sutura di un panorama sonoro perpetuamente gonfio e inarrestabile. Ogni minuscola vibrazione viene percepita dallo spettatore che, vittima di questo sballottamento – emotivo, anche – annaspa nel cercare dei momenti di stasi dentro cui rifugiarsi. Ma cosa ci racconta questa scelta? È palese che siamo dentro l’epoca dei vocali, dei podcast e dell’ascolto perenne. Abbiamo ormai abbandonato da un pezzo la fase di chatting, quindi le nostre orecchie sono costantemente esposte ai segnali che il mondo, prima ancora i dispositivi, ci riversano addosso. Il lavoro di presa diretta del suono nelle cucine del locale, unito a un montaggio rapidissimo, crea un trasporto efficacissimo. Ma non sentiamo esclusivamente le cose esprimersi attraverso pugni, lanci su muri o martellate. Perfino le radio, gli smartphone, i frigoriferi, i tubi e il traffico rivendicano la loro esistenza nella storia, e nella nostra vita contemporanea. Non esistono momenti di pausa, ed è parecchio ironico se pensiamo che The Bear è la serie che nell’ultimo anno ha conquistato maggior clamore e successi, distribuita su Disney+, quindi su piattaforma. Proprio laddove schiacciare pausa è la reale tentazione perpetua …
La già proclamata libertà della serie è racchiusa in una intelligenza lucida nei ritmi che riesce a creare. I tempi (intesi anche come durata) degli episodi sono davvero una sfida all’indicizzazione del pubblico, persino alle stesse piattaforme entro cui The Bear è in circolo. Il sesto episodio della seconda stagione per citarne uno, Fishes, è uno special natalizio dalla durata di circa un ora. Quest’ultimo andrebbe analizzato come prodotto a parte, coi suoi continui scambi e rimandi al cinema di John Cassavetes (Jamie Lee Curtis che cita e omaggia apertamente Gina Rolands) e la frammentazione completa che riesce a suscitare dai personaggi. Ma anche pensando alla divisione che passa tra le due stagioni (la terza è in arrivo) il respiro si fa ampio e completo. Durante la prima quanto ci viene mostrato è un nonnulla, qualche interno e qualche cortile; come se fossimo ancora bloccati nell’era pandemica – ma nessuna mascherina a coprire i volti. Dunque tutto si gioca nella costruzione dei background, di Carmy (l’incredibile e immobile Jeremy Allen White) e il suicidio del fratello, di Richie ovvero “il cugino” troppo irascibile e di Sydney, interpretata da Ayo Edebiri che svolge un lavoro recitativo enorme. Con la seconda stagione qualcosa finalmente sboccia, e non ci limitiamo più ad assistere a qualche metro di passaggio, ma Chicago può mostrarsi totalmente, coi suoi palazzi e panorami mozzafiato. Il ritmo si fa talmente coinvolgente, l’apertura del locale si avvicina ma il menù non è completo. I lavori di ristrutturazione proseguono a rilento, e l’ansia cresce. L’esterno rivendica la sua esistenza, con la sua pressante velocità.
L’aspetto che la maggioranza di pubblico e critica hanno omaggiato in The Bear è l’opera di flusso emozionale che intercorre nella scrittura e nell’interpretazione. Infatti l’impalcatura dei conflitti che si va a creare è una materia talmente densa da risultare quasi tangibile. Ci troviamo ad assistere ed emozionarci per le vicende così banalmente umane, perché ormai abbiamo superato da tempo il bisogno di prodotti quali Lost, dove la spettacolarizzazione esce dal contesto che viviamo tutti i giorni. The Bear è un punto fermo da tenere proprio perché con una puntualità spiazzante viene a declassarci e ridimensionare gli ego. Giunge sino a metterci a paragone con gli orsi, quando vediamo i personaggi diventare davvero tali – che si urlano addosso versi gutturali e grida confuse. È esplicato sin dai primissimi istanti, quando dentro l’allucinazione di Carmy lo vediamo avvicinarsi a una gabbia, dentro la gabbia un orso. Il contatto tra uomo e animale si accorcia, la bestialità che è in noi esce allo scoperto e con questo ritorno alle origini si sottintende anche un dolce edipico approdo tra le braccia materne, immerso nell’affetto che forse durante l’infanzia è venuto meno. Andrebbe rivisto Grizzly Man …
Titolo originale: id.
Creata da: Christopher Storer
Interpreti: Jeremy Allen White, Ebon Moss-Bachrach, Ayo Edebiri, Lionel Boyce, Liza Colón-Zayas, Abby Elliott, Matty Matheson
Distribuzione: Disney+
Durata: 30′ circa a episodio
Origine: USA, 2022/2023