The Hotel, di Wang Xiaoshuai

La pandemia è per Wang il contatto ultimo con una realtà insondabile, che rispetto al passato affida i suoi processi trasformativi non allo spazio, ma alle azioni di un personaggio-demiurgo. Concorso

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Dalla realtà allo schermo. Si potrebbero sintetizzare con queste brevi parole i cambiamenti interni al cinema di Wang Xiaoshuai, ormai sempre più oggetto di trasformazioni che prendono le mosse dalle contaminazioni con il dato reale. Se nei volti scavati dei lavoratori comuni di Chinese Portrait (2018) era già possibile osservare le tracce di una interrogazione del quotidiano – di cui gli uomini erano segno e indice metaforico dei suoi fenomeni – con questo The Hotel è la configurazione (stra)ordinaria di una realtà incredibile, eppure improvvisamente tangibile (come quella pandemica) a decretare la cornice di riferimento del racconto. In cui le motivazioni produttive sono costrette ad abbandonare ogni istinto alla programmazione, per farsi necessità diegetica.

L’idea di ambientare il film all’interno degli spazi limitanti di un albergo nasce infatti da una pura casualità. Da quell’incontro di reale e (sur)reale, che nel gennaio del 2020 ha costretto Wang e il suo pugno di collaboratori a isolarsi per due settimane in un hotel della Thailandia, e a catturare così l’esperienza attraverso la sua rielaborazione cinematografica. Ecco allora che il “dato reale” di cui sopra, senza preavviso né premeditazione, si offre nuovamente in The Hotel come esperienza primaria di riflessione. Come nucleo pulsionale su cui costruire l’ultima rappresentazione di una spazialità dalla natura fortemente transitoria, che già in So Long, My Son, si era lasciata dietro le espressioni formative di Le biciclette di Pechino o quelle trasformatrici di In Love We Trust e Shanghai Dreams.

In The Hotel, perciò, il tempo reale dello spazio pandemico si confonde organicamente con quello (non più parallelo?) del cinema. Siamo in un albergo di Chiang Mai, in piena diffusione endemica del virus. Liang Sova (Yuanyuan Ning) sta per compiere 20 anni, e trascorre il periodo di isolamento forzato tra incontri, flirt e bagni in piscina. Come simbolo diegetico di una condizione umanitaria già divenuta universale, ogni sua azione sembra richiamare alla memoria le fantasie di escapismo di tutti coloro – e quindi di noi spettatori/cittadini – che si sono ritrovati ad affrontare quotidianamente la natura costrittiva delle chiusure coatte. Al punto che il film la esalta a suo unico elemento di totalizzazione, sia estetica che narrativa. Sono infatti gli sguardi infervorati che lancia ai suoi interlocutori maschili, o le parole di risentimento urlate alla madre, a mettere in moto i processi di trasformazione dei personaggi in quarantena. Quei processi che un tempo erano affidati esclusivamente alle proprietà mutanti dello spazio – tanto in quello urbano (Chongqing Blues) come in quello agreste (11 Flowers) – e che adesso convergono unicamente sulla figura demiurgica della protagonista. È solo in seguito all’incontro/scontro con Sova che il timido Ah Hong rinegozia la natura della sua identità sessuale, o Yu quella che lo lega alla madre della ragazza. A testimonianza, insomma, di come il cinema di Wang Xiaoshuai non sia mai fermo sulle sue precedenti configurazioni. Neanche ai tempi dei lockdown di massa. E in questo senso The Hotel, anche in faccia ad alcune incertezze formali, è l’esempio di una poetica che si nutre in continuazione del suo stesso cambiamento interno. Separandola una volta per tutte dalle preoccupazioni estetiche dei suoi colleghi di sesta generazione. Almeno fino alla prossima, inattesa evoluzione.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.7
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