The Staircase: dalla realtà del documentario al Nuovo Realismo della fiction

La serie fiction The Staircase si ispira ad un’omonima serie documentaria. Le due versioni ci interrogano sul rapporto che abbiamo con le immagini: un nostro consiglio di visione per fine anno

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The Staircase rappresenta un caso singolare ed emblematico nella storia della serialità.

Le due versioni (quella documentaria del 2004 e quella fiction del 2022) segnano un momento di passaggio da una forma di esperienza ad un’altra, diversa, rispetto al nostro rapporto con la realtà e con le immagini e alla nostra fruizione delle immagini.

Nel 2004 viene mandata in onda la serie documentaria, The Staircase, di produzione francese, diretta da Jean-Xavier de Lestrade. Ci troviamo davanti Michael Peterson, accusato di aver ucciso la moglie, Kathleen, che era stata ritrovata in fondo alle scale della loro villa, in un bagno di sangue.

Il documentario, la macchina a mano, segue una pista abbastanza univoca, dando per scontato che Michael sia innocente. Il primo scopo di queste immagini era quello di denunciare la corruzione giuridica americana, pronta a sbattere chiunque in galera.

Si tratta di uno dei primi documentari dell’epoca recente che segue le tracce di un presunto assassino così da vicino; Michael ci appare nella sua naturalezza, nella sua spontaneità, nella sua casa, circondato dalla famiglia.

E si tratta di una famiglia numerosa, Michael ha due figli dal primo matrimonio e due figlie adottate (figlie di amici deceduti). Kathleen ha, invece, una figlia, anche lei, dal primo matrimonio. Quando le sorelle di Kathleen vengono convinte dall’accusa che non si è trattato di un incidente ma di un omicidio, la figlia naturale di Kathleen si schiera contro il patrigno.

Diversamente, le due figlie adottate rimarranno sempre dalla parte del padre adottivo, persino quando si scoprirà che la loro madre naturale era morta nello stesso modo: un aneurisma cerebrale causato da una caduta dalle scale nel foyer domestico.

La serie documentaria si dilata nel tempo, con altri due episodi che escono nel 2013 e gli ultimi tre nel 2018. Michael Peterson è diventato a tutti gli effetti un personaggio televisivo; ma c’è di più, in questo passaggio temporale, Michael si sposta, fa un salto tra gli schermi e conquista l’impero Netflix.

Nel frattempo, però, già dal 2008 il regista Antonio Campos comincia ad interessarsi a questa storia. E si tratta proprio di un interesse che nasce grazie alla serie documentaria: sono quelle immagini a stimolare la sua visione.

E qui c’è l’elemento sorprendente, l’elemento spiazzante. Quelle immagini acquistano un valore drammaturgico impensabile, quando si scopre che a montarle è stata una donna innamorata del protagonista della storia.

Dopo aver visto la serie fiction, il nostro rapporto con la serie documentaria cambia profondamente. Il tacito patto di fiducia è stato rotto. La cornice diventa più potente delle immagini stesse.

Quello schermo nero che scandisce la suddivisione della narrazione in capitoli, su cui si apre uno spiraglio, uno spioncino che inquadra un personaggio alla volta, in bianco e nero: quello schermo nero è la chiave di lettura, l’unica che resta dopo le scoperte rivelate dalla serie fiction. Un montaggio non disinteressato firma così quella rappresentazione, dichiarandone tutte le porzioni mancanti in quel nero – un abisso di immagini tagliate ed escluse dalla versione finale.

Gradini filosofici

Perché ci interroghiamo su questo? Ci sembra un terreno fertile per delle riflessioni che partendo dal cinema abbracciano questioni filosofiche abbastanza universali.

Non abbiamo un rapporto diretto con la realtà, questa è sempre mediata. Come dice Walter Benjamin, il cui fantasma è presente in qualsiasi discussione di questo tipo, la distanza dall’oggetto viene prima di tutto dalle nostre proprietà percettive fisiologiche, poi dalle questioni culturali e sociali.

Seguendo le tracce del filosofo Maurizio Ferraris, con la filosofia trascendentale di Kant ha inizio il pensiero “postmoderno” nella storia della Filosofia. Pensiero che si insinua fino a poco, pochissimo tempo fa e che vede il suo tramonto con le immagini dell’11 settembre 2001 che smentiscono i due dogmi postmoderni: il primo, il fatto che la realtà sia socialmente costruita e infinitamente manipolabile e il secondo, il fatto che la verità sia una nozione inutile.

Dal nostro punto di vista, la serie documentaria sembra ritrarre il pensiero postmoderno. “La realtà socialmente costruita e infinitamente manipolabile” è proprio in quelle immagini, montate con un’impostata visione del reale e architettate, messe insieme a corroborare questa versione dei fatti: l’innocenza di Michael Peterson.

Ferraris, insieme ad altri pensatori contemporanei, propone un Nuovo Realismo. Non si tratta di una nuova teoria della realtà, che tanto ci ha distanziati dalla “cosa in sé”, ma viene definita dal filosofo come una necessità: “Le necessità reali, le vite e le morti reali, che non sopportano di essere ridotte a interpretazioni, sono tornate a far valere i loro diritti.”

Sembra proprio di rintracciare tra queste poche righe lo scheletro della seconda versione di The Staircase, dove una delle questioni più rilevanti è la presenza della vittima. La serie ficition tratta dall’omonimo documentario si pone allora come testimone di un Nuovo Realismo che cerca disperatamente di bucare lo schermo per arrivare alla realtà delle cose. Notiamo infatti che il titolo si sostituisce al titolo originale, quasi come se la finzione si volesse impadronire, volesse sostituirsi a quella prima versione documentaria. Purtroppo non è così semplice e nonostante l’obiettivo di questa finzione ci sembra essere questo, c’è un dato fondamentale che si intromette vigorosamente tra questa finzione realistica e la realtà: le immagini.

Le immagini “reali”

Cosa ci mostrano le due versioni di The Staircase? Ci mostrano due filosofie diverse. Sono due risposte alla realtà, dovute a cause diverse: la “prima gradinata” (la serie documentaria) è frutto di un processo giudiziario realmente avvenuto negli Stati Uniti, a Durham. La seconda “gradinata” (la serie fiction) è invece frutto delle immagini del documentario che si incentrava sul funzionamento della giurisdizione americana e sul personaggio di Michael Peterson: non è frutto del vero e proprio processo giudiziaro di Michael Peterson a Durham, ma delle immagini che ritraggono la sua storia.

Sembra quasi esserci una ricerca – non tanto nella realtà della questione, e cioè, Michael Peterson è innocente o no? Ma una ricerca che si incentra più sul mettere a nudo la manipolazione di quelle immagini “reali” – a cui anche solo grazie al livello qualitativo, quell’estetica mossa e granulosa, ci accostiamo con fiducia.

The Staircase, con protagonisti Colin Firth e Toni Colette, sembra quasi essere non una ricerca della realtà ma una ricerca della realtà delle immagini a cui questa serie si ispira. Ciò dimostra una cosa: il nostro rapporto con la realtà non è solo mediato dall’immagine ma l’immagine stessa è divenuta realtà più interessante della realtà stessa.

Se il documentario del 2005 aveva come scopo iniziale quello di documentare i paradossi della giurisdizione americana, seguendo il caso di Michael Peterson, la fiction decostruisce la versione del documentario, non prendendo le parti di nessuno, mostrando le diverse ipotesi, sia quelle presentate in aula, sia quelle confinate dietro le quinte, tenendo, però, sempre una qualche distanza da una presa di posizione. Sintomo dei nostri tempi: la responsabilità dell’atto non ci interessa, è la rappresentazione filmica, scenica ad essere al centro delle nostre considerazioni. L’atto di mettere in scena vince sulle azioni reali.

È questo l’aspetto più interessante di questa doppia, lunga visione: ciò che ci rivela di noi stessi e di come sia cambiato, in questo breve lasso di tempo, il nostro rapporto con la realtà e con le immagini.

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