TORINO 25 – "The Elephant and the Sea", di Woo Ming Jin (Concorso)

Un uomo e un ragazzo coltivano la loro casuale o prestabilita solitudine tra il cielo e la terra malese, paesaggio aspro e liquido di sconvolgente bellezza in cui si diffonde, invisibile, una malattia mortale.

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The elephant and the seaTra la foresta malese e un villaggio di pescatori, cieli e piante che si congiungono in uno splendore tropicale che regna sovrano sulla povertà degli uomini che lo vivono, scivola un’epidemia misteriosa, le cui origini non ci vengono spiegate e che diventa presto un protagonista invisibile del film, sorella minore della nebbia contagiosa del bellissimo I don’t want to sleep alone di Tsai Ming-Liang, lasciandosi dietro una distesa di pesci in agonia sulla riva del mare e impadronendosi anche di coloro che non colpisce, costringendoli a una quarantena governativa (ed esistenziale). Scivolano (e galleggiano) anche le vite estranee di un ragazzo e di un uomo. Il ragazzo: Yun Ding (Berg Lee Seng Wan), trascorre le sue giornate con l’amico Long Chai (Cheong Wai Loon), che morirà improvvisamente, a scegliere oggetti appuntiti da disporre con precisione sulla strada, aspettando le macchine di passaggio, in modo da assicurarsi qualche cliente per le sue prestazioni di meccanico occasionale, si aggira in cerca di oggetti da vendere, sembra invitare la sorellina dell’amico perduto al cinema (ma ironicamente, prendendola per mano, tenta di vendere anche lei, come prostituta, per poi con lei, sulla spiaggia, un buffo e triste appuntamento che fa pensare alle situazioni paradossali di Takeshi Kitano) e compie un pellegrinaggio quotidiano in un acquario, luogo in cui viene perseguitato da un’insistente commessa che decanta le capacità divinatorie di un pesce portafortuna che suggerisce numeri fortunati da giocare (è interpretata da Tan Chui Mui, nella vita altra giovane regista appartenente alla new wave malese, autrice di Love Conquers All). L’uomo: Ah Ngau, appena sbarcato da quattro giorni di pesca, ritrova il suo villaggio in isolamento, la notizia che sua moglie è morta e un dormitorio pieno di inutili doni caritatevoli: pennelli da barba, orsacchiotti, telefoni rotti, e l’esortazione a guardare almeno le figure di un libro religioso: ma si dedicherà per un certo tempo ad un’altra religione più amorevole abbracciando le ceneri della moglie, in una semplice scatola che non gli spiega il senso della sua morte e non gli assicura nessuna pace. Incapace di tornare a dormire nella casa in cui viveva con lei, si sposta in città per rendersi conto che il sesso a pagamento può diventare consolazione o amarezza in aggiunta e si aggira nella natura esplosiva di Kuala Selangor, un luogo in cui è possibile incontrare bambini intrappolati per sbaglio in gabbie per catturare animali e la comparsa fantastica di un elefante, e perfino ritrovare una briciola di speranza nell’apparizione di un pulcino, mentre l’acqua del paesaggio malese contende alla terra e a chi la percorre ogni spazio vitale. Si tratta di un film di silenzioso equilibrio tra malinconia e ironia sottile, che non si interessa all’incontro tra queste due vite accomunate dal tentativo di impadronirsi di se stesse e che si potrebbe sintetizzare nel titolo di un precedente corto del giovane regista Woo Ming Jin, già autore anche di diversi lungometraggi: It's Possible Your Heart Cannot Be Broken.

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