TORINO 27 – "You won't miss me", di Ry Russo-Young (Concorso)

you won't miss me

La frammentarietà ricercata della struttura narrativa e visiva di You won’t miss me, dell’americana Ry Russo-Young, non fonda una visione del presente. La vitalità di Shelly, la sua protagonista, è compressa in una forma filmica che non supera mai il già visto e non ha mai la giusta presa emotiva sullo spettatore che resta indifferente e distratto. Nella selezione del Concorso

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I ventitre anni di Shelly sono segnati da un disturbo mentale che è piuttosto un disagio a vivere i rapporti sociali con serenità. I suoi tentativi di diventare attrice si risolvono in successivi fallimenti. I suoi amori non approdano ad una relazione seria e duratura.

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Il ritratto che la Ry Russo-Young ci presenta di Shelly non ci è nuovo, il registro visivo e formale che You won’t miss me propone è il frutto attuale di un cinema che ha il forte sapore del passato. La frammentarietà ricercata della struttura narrativa e visiva non fonda una visione del presente e il richiamo al cinema degli anni settanta è perfino esplicito e al tempo stesso tanto fuori tono e “fuori moda” da diventare spaesamento visivo senza risultato. L’intento della quasi trentenne autrice americana di fare emergere un personaggio multiforme, articolato e complesso, annega all’interno di una struttura che risente delle forme di un cinema non più aderente ai nostri tempi, esperienze visive che, se oggi messe in scena, non hanno più la forza dirompente di almeno tre decenni addietro. You won’t miss me così concepito non è un diario, perché dentro non c’è la forza corrosiva del tempo, non è un reportage perché la messa in scena e la costruzione frammentaria rimandano ad una scrittura certamente complessa, ma per questo incongrua rispetto a questo modello espressivo, resta a metà del guado per essere un film di fiction, perché la struttura diaristica, non corroborata da una invenzione fervida, ne limita il risultato. Shelly è, purtroppo, la copia fuori tempo di una giovane protagonista come tante ne sono passate sugli schermi, una giovane donna assillata dai suoi fantasmi e dalle sue paure. Sgomenti e angosce che nascono da un difficile rapporto con la madre, che è solo evocata durante le sue riflessioni o le confessioni al suo psichiatra, già attrice e che rappresenta un modello al quale aspirare. Così Shelly, nella sua forte dipendenza rappresentata dall’esempio materno, sviluppa un disadattamento progressivo che la ostacola nelle proprie aspirazioni, nei rapporti d’amicizia e d’amore.

Shelley esiste ed è vivente nel ritratto che Ry Russo–Young le cuce addosso, ma la sua vitalità è compressa in una forma filmica che non supera mai il già visto e per questa ragione non ha la giusta presa emotiva sullo spettatore che resta indifferente e distratto.

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