TORINO 30 – "28 Hotel Rooms", di Matt Ross (Festa Mobile)

Esordio alla regia del giovane attore Matt Ross, una storia d'amore nel segno di Jason Reitman e Richard Linklater. La particolarità del film sta nell’azzerare ogni coordianata spaziale (gli alberghi, il “non luogo” per eccellenza, le 28 stanze diverse che segneranno una frammentata relazione) e temporale (sappiamo solo indirettamente che il loro rapporto sta andando avanti per anni) inabissando anche ogni connotazione identitaria (non sapremo mai i loro nomi, sono solo “un uomo e una donna”). Qualche ingenuità registica di troppo non rovina un fim sincero e mai banale


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Esordio alla regia di un giovane attore, Matt Ross, questo 28 Hotel Rooms è (guarda caso) un film interamente concepito in funzione dei due attori protagonisti (Chris Messina e Marin Ireland). Una storia d’amore nata per caso, in un albergo: lui uno scrittore, lei una contabile d’azienda; entrambi spesso in viaggio per lavoro, entrambi sposati o fidanzati; si piacciono, passano una notte insieme, si rivedono. Niente coinvolgimenti. Inizierà una lunga relazione in cui la clandestinità del sentimento che cresce loro malgrado metterà a dura prova l’equilibrio e la stabilità di entrambi. Ross si inserisce chiaramente in una certa tradizione di indie americano che comprende registi come Richard Linklater e Jason Reitman (Tra le nuvole ha più di un punto in comune con questo film) e in generale in una lunghissima tradizione di cinema hollywoodiano che con modalità molto diverse ha sempre indagato a fondo la costruzione della coppia eterosessuale.

Ma la particolarità del film sta nell’azzerare ogni coordianata spaziale (gli alberghi, il “non luogo” per eccellenza, le 28 stanze diverse che segneranno la frammentata relazione) e temporale (sappiamo solo indirettamente che il loro rapporto sta andando avanti per anni) inabissando anche ogni connotazione identitaria (non sapremo mai i loro nomi, sono solo “un uomo e una donna”), per tentare una archetipizzazione spinta che universalizzi il sentimento. E il lavoro sui caratteri, sulle dinamiche di coppia, sulla difficoltà/paura di ogni investimento emotivo è innegabilmente convincente: l’albergo diventa un oltre il mondo ufficiale dove poter essere veramente se stessi, poter dar sfogo al desiderio represso, in contraddizione con la “cattività” dove si è confinati. Il film stesso è tutto confinato in 28 stanze e fa una fatica immensa a “uscire all’aria aperta” come brama l’uomo in uno dei suoi sfoghi più plateali. Come se il desiderio lo si potesse raggiungere sempre e solo al di fuori di un’identità costituita che comunque va difesa strenuamente: la donna non intende minimante lasciare il marito e la figlia.

Se il film mostra qualche cedimento è nel mero dialogo emozionale con lo spettatore, forse un po’ raffreddato dall’estetizzazione spinta di una regia che tende a “mostrarsi” più del dovuto: continui primissimi piani, fotografia patinata, qualche accelerazione cool. Insomma tutto un armamentario che si sarebbe potuto tenere a bada vista la presenza di due ottimi attori e di una sceneggiatura così complessa e sfaccettata. Ma superata la smania dimostrativa, questo è un film che “rimane dentro”, comunque, per la sua capacità di dire qualche verità non banale sull’amore. Sulle responsabilità. Su quella atavica e incontrollabile paura di essere felici.


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