TORINO FILM FESTIVAL – Un'altra Europa… quella cinefila!

Una minisezione del festival torinese per una grande domanda: esiste o è esistito un “periodo d’oro” per il cinema “di genere” in Europa?

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Esiste o è esistito un “periodo d’oro” per il cinema “di genere” in Europa? Il piccolo spazio curato da Stefano Della Casa e dal critico francese Jean-Francois Rauger per la XIX edizione del Torino Film Festival, sembra nascere proprio da un interrogativo come questo. Ed è interessante che questo spazio venga a instaurarsi all’interno di un dibattito tutt’altro che secondario che interessa un po’ tutta l’Europa cinefila. Se infatti in Italia si riscopre il cinema dei grandi artigiani e fioriscono le collane di videocassette sull’argomento, in Francia spopolano kolossal autarchici come "Il patto dei lupi", "Asterix e Obelix contro Cesare", "Il quinto elemento", dall’esito difforme ma comunque dalla chiara volontà di non restare a guardare rispetto all’ingombrante e chiassoso cinema d’oltreoceano. Né sfuggono i tedeschi alla regola (pensiamo a Buttgereit e al sottovalutato fenomeno dell’horror undergroung ormai noto dappertutto come “scuola tedesca”). Insomma, sebbene in tono (ancora) minore, il vecchio continente sembra animato da una volontà di ritrovare una grandezza non più relegata soltanto nella lontana classicità. Riscoprire il passato si rivela dunque un buon metodo per ridare fiducia al nostro animo di appassionati afflitti dal grigiore di proposte più standardizzate e permetterci di sognare (ancora) un cinema popolare dalle chiare influenze multietniche, ma dalla palese matrice europea.

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Preambolo necessario per introdurre il pugno di opere scelte con eclettismo da Rauger e Della Casa e nel quale trovano immediatamente posto, accanto a più blasonati e riconosciuti talenti come il Paul Verhoeven de "Die Vierde Man – Il quarto uomo" (autore ormai diventato membro onorario della Hollywood di fine millennio), ben tre pellicole italiane come "La mazzetta" di Sergio Corbucci, "La maschera del Demonio" di Mario Bava e "2019: dopo la caduta di New York" di Sergio Martino (presente nel capoluogo piemontese). Una commedia, un horror e un fantascientifico/postatomico: come dire un esempio della più fertile (almeno per numero di film realizzati) tradizione cinematografica nostrana, l’unica che ancor oggi si trascina fra alti e bassi e che perciò qualcuno potrebbe anche definire “nobile”; un capolavoro del genere al contempo più fecondo e meno considerato in patria (acclamato perciò soprattutto altrove); un esemplare, infine, di quella tendenza tutta nostrana al riciclo (il postatomico infatti riprende personaggi, scenari e anche attrezzi di scena del western “spaghetti”) e al ricalco dei successi d’oltreoceano. Dunque cinema “nobile” + “reietto” + “derivativo/trash”: l’essenza stessa, insomma, del cinema italiano dell’epoca, in bilico fra genialità e cialtroneria, condizionato com’era dall’eterna “arte d’arrangiarsi” che in più casi ha regalato grandi capolavori, ma ha anche impedito a reali maestri di trarsi dalle sabbie mobili dell’anonimato. Un’occasione pertanto unica di perdersi e ritrovarsi fra i toni sanguigni di Corbucci, la poesia dei dolly di Bava e la ruspante povertà dei set “riciclati” dal sempre professionale Sergio Martino.
Il resto d’Europa, comunque, non è da meno: se l’Italia infatti è il vaso di Pandora dei generi, anche i cugini d’Oltralpe vantano i loro filoni e gli autori “cult”: termine oramai abusato ma che si intona bene a Jean Rollin, il cui "Le Viol du vampire" è peraltro stato concesso al pubblico in maniera un po’ disgraziata: prima una proiezione notturna con sala semivuota e poi l’oblio causato dall’incendio che ha annullato la replica prevista negli ultimi giorni di proiezioni. Non è stata certo propizia la visita nel capoluogo torinese dello stesso Rollin, il cui bizzarro film, a tratti forte di una visionarietà surrealista e girato in un affascinante bianco e nero, ha permesso finalmente di godere di una piccola porzione del suo cinema, di ardua reperibilità sul suolo italico, diversamente da quanto invece accade con l’iberico Jess Franco, curiosamente escluso dalla selezione.

Proprio dalla terra del sanguigno regista “più prolifico del mondo” arriva comunque la chicca della mini-rassegna, "La novia ensanngrentada", ovvero "Un abito da sposa macchiato di sangue" di Vincente Aranda, storia di vampire (poco) lesbiche celebre da noi soprattutto per le censure della versione (non) circolante fra gli appassionati. Ancora una volta Aranda mette in scena un meccanismo volto a scardinare l’ipocrisia del rapporto fra i sessi, in questo caso visto unicamente come momento soggiogatore da parte del maschio, e lo fa attraverso una libera trasposizione di "Carmilla" di Sheridan Le Fanu. Un film godibile sebbene foriero di perplessità: l’aspetto sessuale infatti è poco marcato e appare puramente strumentale rispetto alla componente horror, ben più vigorosa con tanto di effetti splatter distribuiti con una certa generosità soprattutto nella seconda parte. Aranda si dimostra ancora autore acerbo nella sua indagine femminista, sebbene visivamente il film riservi più di una sorpresa e possa contare sulla convincente fisicità dei protagonisti, vertici di un triangolo lui-lei-l’altra destinato a un tragico finale (con citazione del Kubrick di "Lolita": intenzionale?).
Per ciò che riguarda il cinema mitteleuropeo, infine, arriva dall’Austria il famoso (famigerato per alcuni) "Angst", film amato/odiato dal nostro Lucio Fulci che lo accusava di utilizzare il genere in maniera strumentale pur regalando momenti di indubbio interesse. Merito, a parer nostro, del cameraman e co-sceneggiatore Zbigniew Rybczynski, impronunciabile nome dietro al quale si nasconde una vecchia conoscenza dei frequentatori di "Fuoriorario" e bizzarro teorico dell’immagine (celebre soprattutto "Steps", il suo video in cui alcuni “turisti” si ritrovavano sulla scalinata di Odessa durante la marcia dei soldati de "La corazzata Potemkin", del Maestro sovietico Ejzenstejn). La scelta del simpatico Zbigniew giova visivamente al film che si concede dei virtuosismi abbastanza inediti per il genere dei seral-killer cui il film si apparenta e che non risultano mai gratuiti, ma sempre funzionali alla messinscena di un’idea di “doppio”, propedeutica a riflettere già a livello visivo il carattere schizoide del protagonista, un criminale di cui seguiamo le ultime 24 ore. Certo il film, rivisto oggi, si perde nel mare magnum di pellicole dedicate all’argomento anche se per i tempi risulta piuttosto notevole: disturba però come il teoricismo di Rybczynski “normalizzi” attraverso la mediazione intellettuale una vicenda così potenzialmente squallida, annullandone pertanto proprio la forza “perturbante”. Ci permettiamo quindi di sindacare la scelta di Rauger: ben altro effetto avrebbe prodotto sullo schermo torinese un capolavoro come "Schramm" dell’incompreso Buttgereit, più recente è vero, ma che certe cose sapeva dirle meglio, senza alibi teoricistici e, dunque, con più sincerità.

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