TRIESTE FILM FESTIVAL 19 – "La regola della menzogna", di Robert Sedlacèk (Concorso)

Operazione complessivamente riuscita ma fin troppo fredda, calcolata, senza rischi. Film-rinchiuso che sbatte le ali tra una parete e l'altra, ma che alla fine sa trovare almeno uno spiraglio nelle repentine sequenze-flashback in uno splendido biancoenero. Sicuramente il più esportabile tra i film in concorso.

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L'esordiente ceco Robert Sedlacèk si dice interessato ai momenti difficili delle esistenze individuali, ai buchi neri della vita, alle voragini dentro ad un percorso. Ed è sicuramente per questo che i personaggi di questo “Pravidla Lzi”, come dichiarato dallo stesso regista, sono catturati dalla sua macchina da presa proprio nell'istante in cui “non hanno nessun altro posto dove andare, non hanno più fiducia in loro stessi. La loro vita è in una fase di stallo e questo è sempre il momento in cui ogni frase potrebbe essere il messaggio di un suicida.”
E così ecco un altro film sui ricordi e sull'urgenza di cancellarli per averne di nuovi, sui trascorsi terribili di una comunità di tossicodipendenti che si taglia consapevolmente fuori dal mondo, si rinchiude in un limbo di attesa e dolore sui monti Sumava, in un microscopico universo di 12 persone pronte a scambiarsi dosi di solidarietà, odio e traumi. 
Film-rinchiuso che sbatte le ali tra una parete e l'altra, vola basso a raccogliere le disperate testimonianze dei suoi eroi, arranca nell'aria viziata della reclusione ma che, alla fine, sa trovare uno spiraglio e luce nuova nelle repentine sequenze oniriche e in
biancoenero
calate nelle tartassate memorie dei protagonisti. 
Sequenze-flashback di agonie tossiche spaventose, fulmini che squarciano il film a intervalli più o meno regolari, come fratture improvvise e necessarie, boccate d'aria infetta da buttar giù ad occhi spalancati prima di rituffarsi in quel centro di recupero, nelle vicende che aggrovigliano l'un l'altro i personaggi andando lentamente a trasformarsi in un thriller inaspettato che sbuca dal passato. 
Forse il più esportabile tra i film in concorso, quello che maggiormente si avvale di strutture narrative ed estetiche tipicamente occidentali. E che più degli altri, per forza di cose, si lascia inquadrare in una prospettiva di genere. Un'operazione complessivamente riuscita – e forse già pronta, almeno sulla carta, per una larga e magari fortunata distribuzione – ma sinceramente fin troppo fredda, calcolata, senza rischi né slanci.

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