VENEZIA 61 – "Hu die", di Yan Yan Mak (Settimana Internazionale della Critica)

Non basta essere l'assistente alla regia di un fuoriclasse come Wong Kar-Wai per esserne irragiati dall'aura magica. Lo che dimostra spietatamente il film della Mak, mèlo sbilencamente lesbico che si trascina, pensando di trarre linfa sensuale e sentimentale dall'emancipato sbandieramento delle protagoniste della propria identità sessuale saffica

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Forse a molti non sembrerà possibile, ma non basta essere l'assistente alla regia di un fuoriclasse come Wong Kar-Wai (nel magnifico In the mood for love) per esserne irragiati dall'aura magica. E' quello che dimostra spietatamente il film della Mak, melò sbilencamente lesbico che si trascina con la supponenza di trarre linfa sensuale e sentimentale dall'emancipato sbandieramento delle protagoniste della propria identità sessuale saffica. Ma chi sono queste donne "senza paura" che si muovono in un Hong-Kong sempre più occidentalizzata? Flavia è un'insegnante trentenne, sposata con un figlio, che ha sempre covato dentro l'amore per le donne e non riesce più a nasconderlo quando s'innamora irrimediabilmente di una giovane che serenamente si lascia vivere dalla sua sessualità e ne intensifica definitivamente la motivazione a seguire il proprio flusso di coscienza interiore. La seconda coppia è il classico binomio ragazza sfacciata-ragazza timida, che lotta contro i pregiudizi che le soffocano. Con una certa serenità che allontana dall'amore tormentato dei due giovani gay hong-konghesi sradicati a Buenos Aires in Happy together del maestro Kar-Way, Hu die, letteralmente "la farfalla", non spicca il volo neanche quando i corpi cercano equilibri impossibili unendosi in amplessi che non amplificano ma riprongono stancamente i congressi carnali che affollano ormai pesantemente questi primi giorni di proiezioni festivaliere. La claustrofobia degl'interni che dominano lo spazio ripreso dalla mdp non genera utili disturbi o intimità avvolgenti e le ellissi sgonfiano la materia in gioco invece di darle corpo per sottrazione. Uniche note positive la raffinatissima fotografia luminescente di Charlie Lam, acidulizzata dalla convincente scenografia di Second Chan e, a parte le poco convincenti versioni dei Nirvana, le musiche piacevolmente e inaspettatamente grunge riescono ad alleviare un pò il tedio di questo film mancato che richiede il piuttosto inusuale impegno, per un film orientale, di superare le due ore di durata.

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#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

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