VENEZIA 64 – "EMPIRE II", di Amos Poe (Orizzonti Eventi)

Ispirato al film underground di Andy Warhol, il lavoro sperimentale di Amos Poe è un poema sinfonico su New York, un nuovo capitolo di alfabeto metropolitano realizzato dal filmaker indipendente. In memoria di Bergman e Antonioni.
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Continua il suo lavoro underground, Amos Poe, filmaker da sempre indipendente, figura imprescindibile della new wave americana degli anni Settanta e Ottanta con film manifesto come Unmade beds (1976), The blank generation (1976), Alphabet city (1984). E lo fa con Empire II, ispirato (anche) all’Empire del 1965 di Andy Warhol. Ma queste tre ore di sguardo su squarci di vita – dei luoghi, dei corpi anonimi in transito, dei suoni – di New York registrati nel corso di un anno dalla finestra e dal terrazzo di un’abitazione sono una complessa, fluida, cangiante sinfonia fisica e astratta che si specchia, riesplorandola con i segni della scrittura digitale, in particolare nell’avanguardia tedesca e in quel testo faro che è e rimane Berlino: sinfonia di una grande città di Walter Ruttman del 1927 (che Poe cita tra le sue fonti, insieme alla Divina Commedia e al David di Michelangelo).
Con tali premesse, in Empire II l’Empire State Building è solo un segno fra i tanti sui quali Amos Poe posa il suo sguardo dalle stratificate velocità e lentezze, mettendo in gioco, in ogni inquadratura (se è possibile definire così i quadri dipinti abitati da una profondità inestricabile di magmi cromatici e sonori), la forma, l’identità di uno spazio e la dimensione, che si sa già inesistente, del tempo e della durata. Il doppio orologio della torre ce lo ricorda senza sosta. Non registra più un tempo oggettivo, concordato. Le sue lancette viaggiano a andature variabili, manipolate da un occhio, una mano invisibili, e rese naturali in questa estrema, e leggera, soggettività spaziotemporale. Empire II è un poema visivo e musicale, una partitura abitata da una colonna sonora imponente anch’essa dai toni variabili, che sfuma e si accende penetrando quei cromatismi digitali che saturano, disintegrano, ricompongono quegli spazi trasformati in linee astratte, espanse, e nuovamente ripulite: l’Empire, il Chrysler Building (indicati da Poe come gli interpreti del film), una strada, un parco, le macchine e le persone, le insegne dei negozi, un semaforo, una bandiera americana, e il suono, soprattutto delle sirene… Ma è anche il controcampo di quel set filtrato dalla manipolazione e dalle inferriate della finestra, ben visibili, perché Poe rende altrettanto monumentali alcuni oggetti rubati dall’interno dell’appartamento, osservati in dettaglio: un telefono, dei fiori, un asciugamano… Fino alla parata di carnevale in strada, esplosione di altri corpi e oggetti nei quali il testo, nel suo essere infinito corpo in trasformazione, trova l’immagine in cui ri-conoscersi, ultima lettera del nuovo capitolo dell’alfabeto metropolitano di Amos Poe.
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