VENEZIA 65 – "A nessuno piacciono i miei quadri, perciò mi è sembrato naturale parlare di un pittore". Incontro con Takeshi Kitano

Masayuki Mori, Takeshi Kitano e Kanako HiguchiIl regista giapponese è in concorso con lo splendido Akires to kame, “ritratto” di un pittore completamente votato alla sua arte, sino a sacrifici estremi. Alla conferenza stampa, Kitano ha risposto alle domande dei giornalisti con il suo solito stile, la sua ironia spiazzante, che sembra sempre deviare dal cuore delle domande

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Masayuki Mori, Takeshi Kitano e Kanako HiguchiKitano sembra davvero in gran forma. Lo dimostra, se non altro, la bellezza folgorante del suo Akires to kame, terzo atto di quella che può definirsi la “trilogia della distruzione”.  All’incontro con i giornalisti, Beat Takeshi (tra l’altro tra i protagonisti del film fuori concorso Guilala no Gyakushu di Minoru Kawasaki) ha dato sfoggio del suo spirito dissacrante, della sua ironia spiazzante, che sembra sempre deviare dal cuore delle domande e stabilire una sorta di misterioso filtro. Accompagnato dalla protagonista Kanako Higuchi e dal produttore Masayuki Mori, Kitano ha parlato, tra le altre cose, delle motivazioni che lo hanno spinto a girare Achille e la tartaruga.

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Il protagonista di Akires to kame si chiama Machisu, nome che ha un’assonanza con la pronuncia giapponese di Matisse. Un chiaro omaggio al pittore francese, ma nel film possono riconoscersi riferimenti anche ad altri pittori.

In realtà ho scelto il nome Machisu, simile a Matisse, perché nella lingua giapponese è il nome d’artista dalla pronuncia più facile. Comunque, nei miei due film precedenti mi ero confrontato con il mio personaggio televisivo e con il mio lavoro di regista. Qui, invece, volevo semplicemente  parlare dell’arte pura e semplice, dell’arte per l’arte.

 

 Il film ha diverse somiglianze con Hana-bi. Anche in quel film, del resto, utilizzava i suoi quadri.

Sì, in Achille e la tartaruga i quadri sono tutti miei e non sono per niente belli. Ho scelto i miei dipinti per una motivazione soprattutto economica. Sarebbe costato troppo utilizzare i quadri di altri artisti.

 

Un’immagine che torna spesso è quella della gallina. Come mai?

Sì la gallina…volevo rappresentare un animale domestico, ma non il cane o il gatto. Sarebbero stati scontati. E poi volevo lavorare sui cromatismi del giallo, colore che torna a più riprese nel film, con il distributore di benzina, l’auto di Machisu, il fuoco, i girasoli, che volevano essere un riferimento chiaro a Van Gogh. La gallina mi sembrava perfetta in questo senso.

 

Lei parla in un certo senso di un artista maledetto…Quali sono stati i suoi riferimenti, aldilà del mondo della pittura? E non crede che possa essere un argomento un po’ abusato?

I riferimenti possono essere tanti. Ma il punto è che io sono anche un appassionato di pittura e i miei quadri sono talmente brutti che non piacciono a nessuno. Perciò, per raccontare la storia di un artista non realizzato, mi è venuto naturale pensare a un pittore.

 

Nel film è fondamentale il rapporto tra l’artista, con la sua passione, e il mercante d’arte, completamente legato alle motivazioni economiche.

Credo che per una artista sia importante dipingere anche senza riscontri.

 

Ci sono riferimenti autobiografici nel film? Come è cambiato il suo cinema rispetto alla componente autobiografica?

In effetti, ci possono essere riferimenti autobiografici. Del resto, quando ero più giovane e volevo affermarmi nel mondo dello spettacolo, anch’io cercavo la fama, i riconoscimenti della critica e del pubblico.

 

Che ci dice della concezione del tempo nel suo cinema?

Nei miei film in genere non è rintracciabile un asse temporale ben definito. Questo film, invece, comincia dall’infanzia del protagonista e lo segue lungo l’adolescenza e la maturità. Poteva essere molto più lungo, ho dovuto lavorare di sottrazione. In ogni caso, rimane uno dei miei pochi film che segue una temporalità lineare.

 

Lei mette in scena un suicidio. Crede che l’artista debba morire?

Io non credo che l’artista debba morire. Volevo semplicemente raccontare quanto l’arte possa essere crudele, fino a diventare una vera e propria droga.

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