VENEZIA 65 – "Dikoe Pole", di Mikhail Kalatozishvili (Orizzonti)

È pieno di silenzi e di nitide immagini del vuoto della steppa il film di Mikhail Kalatozishvili Dikoe Pole selezionato nella sezione Orizzonti. L’autore fa emergere la vita dal nulla e il racconto è tutto giocato in un fuori campo insistito. Una meccanica alternanza del racconto penalizza il film e lo ingabbia nell’attesa di un atteso finale.

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Riempito di silenzi e governato dalla immensa steppa russa Dikoe Pole (Prateria selvaggia) nulla ha a che fare con il western metafisico che il titolo italiano sembrerebbe preannunciare, nulla peraltro con una trilogia di alta classe letteraria di questi ultimi anni. Al centro del film Dimitri Vasilevic un giovane medico che vive nel bel mezzo di una steppa inospitale, ma piena di gente che ha bisogno di lui. Ma la sua donna lo abbandonerà e la presenza che gli appare benevola rivelerà la sua natura.

Affascina lo sguardo dello spettatore la vuota consistenza dell’immagine che Kalatozishvili crea con la piena complicità dello scenario. C’è un nitore, nella fotografia, che riflette lo sguardo sincero di Oleg Dolin, il protagonista della storia. In un momento di conflitti, accesi e furibondi che vede quei Paesi protagonisti, quest’opera fa emergere un lato umano di grande forza e solidarietà. Non ci sono barriere, la missione del medico e in quell’apparente vuoto esistenziale, in una sospensione temporale perfetta, la vita sembra emergere dal nulla, generata piuttosto dalla casualità che dalle meccaniche che la governano. La casa del giovane dottore diventa così il centro del mondo, il nostro centro dello sguardo, un baricentro visivo e vitale davanti e dentro il quale la vita brulica e si immagina. Tutto, infatti è negato all’occhio dello spettatore, i fatti, di cui vediamo gli effetti (tentati omicidi per gelosia, incidenti di vario genere), stanno tutti in un fuori campo oggettivo e scorrono davanti a Dimitri, che non supera quasi mai i confini della propria abitazione, i dolori di un’umanità che si rivela nel suo aspetto più terreno.

Il film di Kalatozishvili, nipote di Mikhail Kalatozov, possiede molte frecce al proprio arco ed è capace di rivelarci una verità che si fa tale solo nella narrazione e che si comprende solo dentro sguardi e dalle parole dei suoi protagonisti. Ma all’interno di questa capacità narrativa, che va oltre il significato del termine per il valore che le immagini imprimono, il film soffre di una certa meccanicità narrativa alternando i momenti di solitudine del protagonista all’interno del proprio recinto domestico a quelli che preannunciano il suo intervento professionale. Quest’alternanza del racconto polarizza alla lunga l’attesa dello spettatore e l’epilogo finale appare la chiusura di un’attesa che forse non incanta e non stupisce, rivelandosi, probabilmente, l’unica possibile nella logica del dispositivo narrativo innescato, oltre che l’unica possibile per un personaggio che appare fuori dal tempo e quindi privo di qualsiasi mezzo di difesa per la pura consistenza che lo anima.

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