#Venezia75 – Vox Lux, di Brady Corbet
Isterico e fumoso diario di formazione, con Natalie Portman totalmente fuori controllo e un dolore, quello dell’America prima e dopo l’11 settembre, solo esibito. Concorso
“Questo film è importante perché ci aiuta a ridefinire le forme contemporanee della bruttezza” (anonimo conosciuto)
A Star Is Dead. Preludio, atto 1, finale. Tra passato, presente e futuro. Dopo L’infanzia di un capo anche Vox Lux è un altro diario di formazione. Quello di Celeste, nata nel 1986, segnata da una grande tragedia e poi diventata superstar pop. Tutta la sua mutazione dal 1999 al 2017. Con la voce narrante di Willem Dafoe, quasi un racconto che scorre parallelamente. Un biopic musical con le tenebre dell’horror. Il buio nella mente materializzati dalla presenza dei tunnel. Brady Corbet punta maldestramente a Jonathan Demme (citato nei titoli di coda come omaggio) e, nel suo percorso, ridefinisce esteticamente le nuove forme della bruttezza oggi. Spegne il palco, cristallizza l’impeto pop con le sue esplosioni cromatiche, danza tra Haynes di Velvet Goldmine e Aronofsky di Il cigno nero da cui riprende la zona oscura di Natalie Portman.
Il volto, il corpo, la maschera. Un sotterraneo patto col diavolo della protagonista, quasi uno stage sulla sua vita. Seguita in un’interminabile sequenza prima di una conferenza stampa e soprattutto in un dialogo con la figlia dove tutta la presunta passione del suo cinema si risolve in una frequente scenata isterica.
No, un cinema come quello di Corbet, è solo respingente. Con le sue inguardabili accelerazioni/manipolazioni nel viaggio a Stoccolma, nei brani musicali che restano solo frammento di sceneggiatura e che vengono subito bloccati nel momento in cui si potrebbe creare una simbiosi tra la voce e la sua protagonista come nella scena della veglia funebre.
Irritante? Neanche. Lì ci può pensare il personaggio della Portman ormai totalmente sopra le righe, quasi mockumentary sulle ossessioni della star. E che cancella invece la sua adolescenza. Restano solo i tic, i movimenti attorno al collo. Con gli occhi di fuori e il nero di un demone. Con Jude Law che è la sua ombra e la sua coscienza. E che mette in ombra, solo come balia, la ben più interessante Stacy Martin.
Difficilmente inoltre un concerto sullo schermo è stato così noioso. Con le ossessioni nella star e le sue nevrosi filmate come se il cinema di Corbet se le sentisse addosso sulla pelle. Con i suoi frenetici pedinamenti, le urla, la gestualità amplificata. Dove ogni scena-madre vuole sovrastare la precedente scena-madre. Con il risultato che si annullano. E basta.
Poi il dolore. Esibito in un film che lo spaccia soltanto. Proprio con la sua ‘vox lux’. Che filma attentati (quello della classe e della spiaggia) per essere un’altra metafora dell’11 settembre. Passato, presente, futuro. Ma se non si fosse capito bene, le ferite su New York vengono mostrate attraverso le inquadrature da sotto dei grattacieli e un accenno alla strage dentro la stanza di un hotel. Con una fisicità ancora contenuta. Tra riabilitazione in piscina, passi di danza. E un corpo segnato. Quello di un cinema che si mette allo specchio e diventa un pericoloso incrocio tra Michael Haneke e Gregg Araki. A Star Is Dead.