VIII FESTIVAL DEL CINEMA EUROPEO – Valeria Golino: felicemente mediterranea, ma priva di confini

A Lecce l'omaggio a una delle più sensibili interpreti del nostro cinema, capace di trarre forza dalla sua storia e dalla sua personalità, senza accontentarsi mai e sperimentando personaggi e soluzioni sempre nuovi

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Tributare un omaggio a un'attrice come Valeria Golino significa effettuare una scelta di campo coraggiosa e controcorrente: poco presenzialista, seppur si sia abituati a vederla sui set di mezzo mondo, l'attrice napoletana è infatti una figura che dimostra quanto il cinema sia ancora capace di andare oltre i suoi stessi limiti. D'altronde è indubbio si tratti di un'interprete cui piace varcare dei confini e non contentarsi degli aspetti più immediatamente legati alla propria storia, che sa mettersi in gioco e per questo motivo riesce a incarnare figure difformi o più semplicemente "oltre". Perfetta definizione per una donna che usa la propria origine del Sud Italia non in senso pittoresco, ma cercando di incarnare un'ideale solare e magico (Respiro, 2002, di Emanuele Crialese), addirittura spaziando tra il dialetto tarantino de Le acrobate (1997, di Silvio Soldini) e il personaggio alto-borghese ma intellettualmente controcorrente e libero de La guerra di Mario (diretto da Antonio Capuano nel 2005).

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La stessa scelta (concordata con l'attrice) dei film mostrati a Lecce dimostra in fondo la sua predilezione per storie che partono da contrasti intimi per raggiungere poi vette di lirismo più universali, capaci anche di dribblare gli assunti più polemici (e datati) del racconto. Ad esempio in Storia d'amore di Citto Maselli (1986), la componente politico-sociologica enunciata lungamente dal regista in fase di presentazione della pellicola (con precisi riferimenti alla situazione partitica dell'Italia anni Ottanta) viene agilmente scavalcata dalla presenza fisica dell'attrice, che dona ai momenti non dialogati una forza espressiva ben rappresentata dal lirico finale tutto giocato sull'intensità del suo sguardo.

Una forza in contrasto con il suo aspetto minuto e rassicurante, con i modi divertiti e affabili con i quali la stessa Golino ha intrattenuto il pubblico presentando le pellicole viste al festival. Non un'attrice semplicemente camaleontica o di "metodo" (laddove questa espressione tende a nascondere una certa componente narcisistica), quanto un'interprete sensibile e energica, dove l'inquietudine non si traduce in nevrosi, ma diviene coraggio di tentare strade alternative: un po' come la "sua" Maria de Le acrobate, che lascia il grigiore di una vita ormai sempre uguale a se stessa per tentare l'avventura di un viaggio nel Nord sconosciuto. Un intento non troppo diverso da quello ammesso dall'attrice, che ha spaziato per set e paesi in cerca di un cinema che le permettesse di non adagiarsi mai sulle scarne proposte del nostro mercato appiattito sulla fiction televisiva. In questo senso la Giulia de La guerra di Mario rappresenta forse la classica quadratura del cerchio per come riesce a riassumere le sue sfaccettature: forte eppure capace di grande umanità, coraggiosa nelle scelte che possono anche portarla a non essere compresa dagli altri, ma perseguite con convinzione nella speranza di infrangere il muro dell'incomunicabilità che affligge il nostro presente. Ecco, Valeria Golino, è probabilmente una delle ultime rappresentanti di un modo di intendere la figura dell'attore come personaggio capace di comunicare, di essere transitivo e di abbattere le barriere tra la vita e il cinema. Felicemente mediterranea, ma compiutamente priva di confini.

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