Virgin Mountain, di Dagur Kári

Un poetico e toccante racconto sulla solitudine, la diversità, l’esclusione, le diverse sfumature di un disagio nell’abitare la propria pelle. Presentato in Italia in anteprima al BFM35

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Fúsi è un quarantenne timido, obeso, solitario, che vive ancora con la madre. Le sue giornate, metodicamente scandite tra una ricostruzione in scala della battaglia di El Almein e una telefonata alla radio locale, passano con la lenta rassegnazione con cui nelle ore di lavoro trasporta i bagagli all’aeroporto. L’intera vita di Fúsi sembra immobile, intrappolata in un interstizio che separa i momenti di vita vera, tra uno smistamento bagagli e l’altro. L’incontro con la dolce e problematica Sjöfn diventa fatale: è l’intero mondo che sembra ora schiudersi dinanzi a lui. Virgin Mountain, quarto lungometraggio firmato da Dagur Kári (Nói albínói, Voksne menneske – Dark Horse, The Good Heart), è un poetico e toccante racconto sulla solitudine, la diversità, l’esclusione, le diverse sfumature di un disagio nell’abitare la propria pelle. In questo film del 2015 – presentato alla 65° Berlinale e poi passato per numerosivirgin mountain3 festival collezionando premi, fino all’approdo dell’anteprima italiana al Bergamo Film Meeting di quest’anno -, ritroviamo tutte le tematiche care al cineasta islandese: è di nuovo l’emarginazione l’idea cardine attorno cui si sviluppa il movimento narrativo; la figura paterna elemento problematico e inafferrabile, l’amore la promessa (o il miraggio) di salvezza; di nuovo il viaggio, l’allontanamento, come spiraglio per nuove opportunità e speranze, e l’elemento utopistico rappresentato dai posti caldi, incarnato simbolicamente dalle ricorrenti palme esotiche.

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È anche la desolante amarezza di uno scenario antropologico che etichetta e comprime, a riaffacciarsi in Virgin Mountain, e un ambiente che circonda, placca, soffoca. Non una scenografia naturale stavolta, come avveniva nell’opera d’esordio, ma le ambientazioni chiuse che intrappolano il corpo e le aspettative del protagonista. Sorta di ventre materno dilatato, che protegge (ma separa anche) dal mondo esterno, un mondo che si riverbera attraverso vetri smerigliati e musica amplificata, e che ben poco si lascia intravedere. E lo sguardo del regista danza delicatamente attorno al suo personaggio principale, si lascia assorbire e guidare dai suoi movimenti, entro le pieghe di una sensibilità e una fragilità disarmanti. Una fragilità nei confronti del mondo che appare in tutta la sua ingenua sincerità, e che il magnifico interprete Gunnar Jónsson (Rams – Storia di due fratelli e otto pecore) veste con sublime semplicità e tenerezza. È con questo avvicinamento di prospettiva, che Kári sembra raggiungere in questo film denso di agrodolci malinconie una maggiore complessità stilistica: è ancora un occhio pittorico, quello che osserva dietro la telecamera, ma un occhio che predilige stavolta i dettagli, le inquadrature strette, una vicinanza emotiva che negli sguardi e nei silenzi trova la voce di Fúsi. E lo spessore narrativo riesce a toccare tante sfumature tematiche, sfiorandole con la leggerezza di un ritmo che sa essere lieve e disturbante al contempo. Senza affondare troppo, senza perdere di vista il retrogusto umoristico, la dolcezza, il sogno, la poesia.

Titolo originale: Fúsi
Regia: Dagur Kari
Interpreti: Gunnar Jónsson, Ilmur Kristjánsdóttir, Sigurjón Kjartansson
Origine: Islanda, Danimarca, 2015
Distribuzione: Movies Inspired
Durata: 94′

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