What did Jack do, di David Lynch

Il deepfake del volto della scimmia parlante Jack Cruz apparso su Netflix sembra quasi una risposta al de-aging di Irishman, da parte di un cineasta che da sempre ama deformare e scorporare le facce

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L’apparizione di questo lavoro del 2016 di David Lynch (mostrato prima d’ora solo in rarissime occasioni legate a esibizioni ed eventi curati dal cineasta) su Netflix, in occasione dei 74 anni dell’autore di Elephant Man, ha tra le altre cose il sapore dell’inside joke. Nel periodo dell’anno in cui la piattaforma di streaming è maggiormente impegnata nel sostegno a The Irishman, il deepfake del volto della scimmia parlante Jack Cruz sembra quasi una risposta al de-aging di Robert De Niro e soci nel film di Scorsese, e forse anche alla versione “migliorata”” da un anonimo utente della rete con soli 7 giorni di lavoro ed un freeware molto meno costoso di quello in mano a Thelma Schoonmaker. Concettualmente, c’è davvero differenza tra questa scimmia canterina, l’espressione vitrea di Frank Sheeran, il Simba del Re Leone fotorealista, e i vari Jim Carrey/Nicholson, Barack Obama, Enrico Pasquale Pratticò degli esperimenti di esproprio facciale del web? (questo fa chiaramente della cinquina per i visual effects degli Oscars2020 la vera categoria cruciale dell’intero lotto di nomination…) D’altronde se Irishman è un compendio di temi dell’antropologia malavitosa scorsesiana, What did Jack do è puro greatest hits lynchiano con tazza di caffè, bianco e nero trascendentale, inquietudine da camera d’incubazione, misteri, linguaggi criptati e nuvole di fumo (sono giusto 17 minuti contro le tre ore e mezza di Scorsese!). L’intero dialogo-interrogatorio tra l’animale antropomorfo e il detective Lynch sembra un reiterato test di Touring per capire se davanti all’uomo ci sia davvero un essere umano oppure una creatura inanimata, un bot innamorato di una gallina.
Non siamo troppo lontani dalla modalità di comunicazione del Dougie Jones di Twin Peaks The Return, sorta di incarnazione degli scambi via chat, tra visualizzazioni dei concetti primari come un’emoji vivente (ricordate Dougie che se la sta facendo sotto?), e reiterazioni di frasi ripetute come già memorizzate dai suggeritori automatici (call for help).
Nell’epoca della scrittura automatica degli algoritmi alla conquista del processo creativo, e del deepfake ludico (?) spauracchio del capitalismo della sorveglianza, assume allora nuova importanza la riflessione di un cineasta come Lynch che su deformazione e indefinitezza delle fattezze umane ha costruito una parte importante della propria poetica. Si pensi allo shock del volto di Laura Dern trapiantato sul corpo di un attore-fantasma in un terrificante, celebre primo piano di Inland Empire, oppure a quella specie di caffettiera gigante e stantuffante in cui viene tramutato Phillip Jeffries/David Bowie ancora nell’ultima stagione di Twin Peaks, dove Laura Palmer nella Loggia Nera è solita staccarsi letteralmente la faccia dalla testa, come fosse una maschera, per rivelare un fascio di luce di un bianco abbacinante sotto la pelle – QUI nella versione oscura performata dalla madre Sarah (nella famosa sequenza del Monica Bellucci dream, Lynch/Gordon Cole racconta della presenza nel sogno anche di Dale Cooper, “ma non riuscivo a vedere la sua faccia”, e poi di trovarsi di fronte a sé stesso ma più giovane di molti anni, in un frammento estrapolato da Fuoco cammina con me).
Da questo punto di vista, la scimmietta cappuccino di What did Jack do è allora parente stretta della famiglia di conigli intrappolati in una sit com di Rabbits, repliche senza volto e senza emozioni del canone inanimato della frontalità della commedia televisiva, di applausi e risate registrati.

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In questa lucidissima operazione di auto-brandizzazione che comprende, oltre a questo corto Netflix, all’attività della sua Fondazione e ai numerosi documentari a lui dedicati, tutta la produzione parallela di musicista fino allo straordinario album in duo con Angelo Badalamenti, Thought Gang, pubblicato solo nel 2018, il punto più alto nella direzione deepfake è forse rappresentato dalla collaborazione con Flying Lotus per Flamagra, uno dei progetti musicali “espansi” più vertiginosi dello scorso anno.
Fire is coming è il brano con cui Lynch partecipa alla playlist, accompagnato da un videoclip (a firma Steven Ellison e David Firth) dove l’ennesima creatura morta, esanime, della sua galleria si trasforma nell’apparizione terrificante di una bestia che ha inghiottito lo stesso Lynch, il quale fa capolino dalle fauci aperte dell’essere imbalsamato, e volto oramai del tutto postumano, racconta l’ennesima storia di apocalisse domestica. Eccolo:

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4.08 (12 voti)
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