FESTIVAL DI ROMA 2011 – "Magic Valley", di Jaffe Zinn (Concorso)

Jaffe Zinn viaggia sicuro sulla scia di sequenze ben orchestrate che sanno ricreare quell’atmosfera di normalità malata tipica della provincia al cinema, ma purtroppo non riesce quasi mai a porsi oltre l’immaginario che consapevolmente tira in ballo. E se dal punto di vista registico è lodevole il risultato di tenere incollato lo spettatore sullo schermo pur con un ritmo dilatatissimo, il film risulta  poi decisamente schiavo della Grande Riflessione che vuole porre. Pregi e difetti del medio cinema indie americano

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Magic ValleyAnche il cinema indie ha ormai le sue convenzioni. Estetiche e narrative. Convenzioni che stabiliscono un mood, un’appartenenza, un discorso comune con lo spettatore: esattamente come la Hollywood dei blockbuster. Magic Valley è un esempio paradigmatico di “indipendenza” americana: piccolo budget, ambientazione provinciale, riflessione sul male endemico che affligge la famiglia e regia che tende alla rarefazione. Una “piccola” storia che vuole allargare il campo ai grandi temi americani, con grandi referenti da tirare in ballo. La cittadina di Buhl, nel lontano Nord-Ovest dell’Idaho, viene catturata nell’istantanea di una mattina qualunque che nasconde strani sentori di morte: un canale prosciugato e un allevamento di pesci sterminato. E poi la normalità: lo sceriffo Ed Halfener (la vecchia gloria Scott Glenn) va al lavoro nel mito di Chuk Norris; due bambini vanno a giocare nel bosco nel mito di indiani e cawboy; un adolescente si muove addolorato sul suo skate in un copia/incolla dei paranoid vansantiani. Insomma: una panoramica sull’immaginario americano di riferimento, tirato in ballo in poche inquadrature come per consegnarci il libretto d’istruzioni da bravo spettatore. E poi l’evento: l’ennesima Laura Palmer viene ritrovata morta, nel piccolo villaggio che ne sarà sconvolto, con responsabilità che moralmente apparterranno a tutti. Ma è questa la particolarità di Magic Valley: qui ci si ferma prima, si “inquadrano” solo le ore che precedono l’esplosione della notizia, che anticipano ogni conseguenza (e, chi lo sa, forse anche l’arrivo a Buhl/Twin Peaks del mitico ispettore Dale Cooper…). Il corpo della ragazza uccisa la sera precedente verrà trovato subito dai due bambini: l’innocenza vis a vie con la morte e il “gioco” che diventa quello di scavare una buca e darle una sepoltura.

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Jaffe Zinn viaggia sicuro sulla scia di sequenze ben orchestrate che sanno ricreare quell’atmosfera di normalità malata tipica della provincia al cinema, ma purtroppo non riesce quasi mai a porsi oltre l’immaginario che consapevolmente tira in ballo. E se dal punto di vista registico è lodevole il risultato di tenere incollato lo spettatore sullo schermo pur con un ritmo dilatatissimo e volutamente compassato, il film risulta  poi decisamente schiavo della Grande Riflessione che vuole porre. Il gioco è troppo scoperto: si cita Walker Texas Rangers per porlo in maniera antifrastica con la normalità di Ed, si ammicca a Van Sant e alla strage della Coloumbine per far capire di che violenza stiamo parlando. Ecco, è questo che latita in Magic Valley: la personalità registica di rilanciare un immaginario appropriandosene, come in Small Town Murder Songs o in Un Gelido Inverno altri giovani registi (e con tematiche molto simili) hanno a loro modo saputo fare. Ma forse Magic Valley risulta un esempio così paradigmatico anche per questo: perché assomma pregi e difetti di un modo di concepire il cinema che resta comunque vivo e stimolante.  

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